La correzione scattata sulle obbligazioni è eccessiva?

A cura di Maria Municchi, M&G Investments
Sono in molti a pensare che la correzione sui titoli governativi negli Stati Uniti sia stata esagerata: secondo la teoria, la debolezza è derivata dalla vittoria di Trump, ma è decisamente troppo presto per sapere cosa farà il presidente eletto e con quali conseguenze. Guardiamo con una certa simpatia a questa tesi: la rapidità della correzione impone di porsi qualche interrogativo, in particolare sul segmento lungo.
Tuttavia, l’analisi presenta indubbiamente alcune influenze comportamentali comuni, in quanto ignora il punto di partenza delle valutazioni e fa troppo affidamento sulla spiegazione più ovvia dei movimenti di prezzo (Trump), senza considerare altre cause ipotizzabili. Ad esempio, è possibile che gli sviluppi fondamentali negli Stati Uniti e le percezioni degli investitori riguardo al rischio stiano svolgendo un ruolo più significativo e si rivelino fattori duraturi?
Economia statunitense: si sta riscaldando…
Già in ottobre, Janet Yellen aveva accennato alla possibilità di un’ “economia ad alta pressione” caratterizzata da un mercato del lavoro rigido che traini la crescita dei salari e la spesa per consumi, a loro volta destinate a tradursi in un rilancio dell’attività di investimento. Ciò potrebbe comportare livelli di inflazione e crescita più elevati di quelli a cui siamo abituati, un ambiente tradizionalmente negativo per le obbligazioni. Ma quanto è alta l’ “alta pressione” e come la misuriamo?
Il punto di partenza è il mercato del lavoro, primo barometro dell’attività economica. La tendenza recente è stata molto positiva in base a diversi parametri.
Il dato sulla disoccupazione della scorsa settimana è il più basso dal 2007 e sembra essersi stabilizzato al di sotto del 5%. Le richieste di sussidi non solo sono diminuite, ma non erano mai state in numero così esiguo dal 1980, anno in cui è iniziata la raccolta dei dati.
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Altre testimonianze delle buone condizioni di salute del mercato del lavoro statunitense si trovano nell’ultimo Beige Book, in cui la Federal Reserve raccoglie prove aneddotiche sullo stato dell’economia. I segnali sono coerenti con un’espansione continuata dell’occupazione, associata a salari in aumento o difficoltà a coprire le posizioni vacanti nella maggioranza dei distretti.
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Nonostante l’ultima rilevazione leggermente deludente (incremento del 2,5% anno su anno), anche la tendenza della crescita dei salari si conferma positiva.
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Insieme all’inflazione dei salari, anche i prezzi al consumo stanno cominciando a risalire, spinti dall’attenuazione dell’effetto legato al petrolio a basso costo. Le vendite al dettaglio sono migliorate in misura significativa, nella seconda parte del 2016, come testimonia l’incremento del 7,4% a/a rilevato nell’ultimo dato.
…forse anche più di quanto suggeriscano i dati sull’occupazione?
In base a numerosi parametri, quindi, l’economia potrebbe già sembrare superficialmente ad alta pressione. Inoltre, come ha detto Tristan Hanson in agosto e come ha accennato Richard Woolnough nei commenti a un post sul blog Bond Vigilantes in gennaio, ci sono segnali in base ai quali il tasso di partecipazione più basso non andrebbe interpretato come indicativo di un alto grado di capacità inutilizzata nell’economia.
Questo punto di vista ha trovato conferma in un recente studio della Fed di San Francisco, che ha evidenziato come la combinazione di una popolazione di pensionati in crescita e un tasso di partecipazione al lavoro inferiore (soprattutto fra i giovani), nella forza lavoro statunitense, abbia “ridotto il tasso di crescita tendenziale dei posti di lavoro necessario per mantenere la piena occupazione e probabilmente continuerà a farlo in futuro”.
La correzione sulle obbligazioni: non è stato solo Trump
In questo contesto, è troppo semplicistico pensare che il mercato abbia esagerato dando un’importanza eccessiva alla retorica elettorale di Donald Trump. Gli aumenti di rendimento sono in linea con il miglioramento dei dati cui abbiamo accennato sopra, ma soprattutto riflettono semplicemente il fatto che le obbligazioni a metà anno apparivano mature per una correzione.
A fine giugno, i rendimenti erano per la maggior parte ai minimi storici, a seguito delle flessioni episodiche nel primo trimestre e nel dopo Brexit. I movimenti che abbiamo visto da allora rappresentano solo l’esaurimento di questa fase di comportamento e non hanno fatto altro che riportarci al punto di partenza di quest’anno.
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Il mercato ha fatto presto ad attribuire l’andamento ai piani della nuova amministrazione repubblicana, con il potenziale programma di stimolo fiscale e spese infrastrutturali, ma la semplice interpretazione dei dati disponibili avrebbe puntato a un’evoluzione simile. Se a questo si aggiunge la sensazione sempre più diffusa di un rischio per le obbligazioni derivante dal cambio di ideologia alla base delle decisioni politiche in tutto il mondo, diventa evidente che manchi qualcosa nelle spiegazioni dei movimenti di prezzo tutte imperniate sull’elezione di Trump.
Uno sguardo in avanti
Forse il peggio degli aumenti di rendimento nel breve termine è già passato, ma questo potrebbe dipendere non tanto da un possibile cambio di opinione degli investitori su Trump, ma da altre dinamiche.
Ad esempio, sarà cruciale vedere se l’economia statunitense continuerà a mostrare segnali di vigore e come risponderà la Fed a una situazione di questo tipo, ma anche osservare il cambio di percezione degli investitori riguardo al rischio legato all’asset class. Una qualsiasi di queste forze può subire un’inversione, ma in ultima analisi, l’impatto sarà più duraturo delle reazioni istintive alle parole di Trump.

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