Non è il 2008… è peggio! L’analisi di Michael Palatiello (Wings Partners)

A cura di Michael Palatiello, strategist di Wings Partners Sim
Come descrivere quanto accaduto ieri? Lasciamo perder i titoloni da prima pagina tipo “bagno di sangue”, “global meltdown”, “giorno del giuduzio” etc, etc… E’ stata una giornata di panico, puro e semplice, in cui la popolazione degli investitori mondiali, cullati fino ad oggi dalla fiducia nelle Banche Centrali e dalla certezza che alla fine un “deus ex machina” sarebbe sempre intervenuto a sistemare le cose, si sono trovati di fronte all’evidenza che i mercati possono andare in entrambe le direzioni, e non sapendo come reagire, hanno semplicemente fatto la prima cosa che verrebbe naturale in questi frangenti: hanno venduto tutto, anche tramite trading automatico, senza distinzioni di sorta. Ora molti si chiedono cosa succederà dopo.
Ebbene, chiunque si vanti di poter sapere, prevedere, o solo intuire in cosa sfocerà questa crisi, o è un millantatore, oppure uno stupido. Il passato non è e non può essere una guida in questo frangente (nel prosieguo farò un interessante parallelo con la crisi del 2008 per evidenziare più le differenze che le affinità): arriviamo da un esperimento monetario che per stessa ammissione dei decisori di politica economica è senza precedenti (“Uncharted Territory”), così come il livello raggiunto dal debito globale in questi anni. Nessuno, compresi i banchieri centrali, sa realmente cosa succederà nella fase di deleveraging, affidandosi alla speranza, evidentemente mal riposta, che il mercato possa trovare un suo equilibrio in maniera graduale e senza scossoni. Ed ancor peggio, se il mercato perderà fiducia nell’infallibilità della Banche Centrali, quella vista ieri sarà solo una prova generale. Ma andiamo per gradi.
In principio fu Shanghai. Insomma che il mercato cinese non scoppiasse di salute non è proprio una notizia fresca, ma le nuove e pesanti prese di beneficio di venerdì (insieme alla pubblicazione di dati sul manifatturiero che sono stati i peggiori in 6 anni e ½ ) di pari passo ad una evidente assenza questa volta di Pechino nel calmierare gli animi ha creato le prime profonde fratture nel sentiment degli investitori, allargatesi poi con una chiusura di Wall Street in serata decisamente negativa che ha lasciato parecchio amaro in bocca nel weekend.
Poi ieri la sessione asiatica, pesante, pesantissima, seguita da quella europea dove un timido tentativo di reazione iniziale sfuma in perdite che si fanno di ora in ora più evidenti.. Tempo di arrivare sotto apertura ed anche i futures su Wall Street danno segnali di tempesta, con quello sul Nasdaq sospeso per tre volte di seguito con l’implementazione dei c.d. “circuit breakers” che scattano con perdite superiori al 5%. L’apertura americana alla fine riesce, ma è da brivido, con il Dow Jones che apre in flessione di 1.000 pts (circa 6,5%) per poi lentamente, faticosamente recuperare. Tutte le speranze risiedono nella reazione americana, che comunque manca con una chiusura negativa nell’ordine del 3,5%; meno peggio della vigilia ma certo non da champagne e caviale.
Questa mattina tocca all’Asia cercare la reazione, ed in parte ci riesce se guardiamo la maggior parte degli indici regionali, ma Shanghai chiude di nuovo pesante (-7,63%) nel silenzio attonito di Pechino (che si limita ad iniettare 30 mld di usd di liquidità, una mancetta) trascinando con se anche l’indice nipponico che pur sembrava volersi unire alla generale reazione asiatica (-3,96%) Ci si affida quindi questa mattina alla reazione europea, in pieno svolgimento. Se vogliamo avere il polso del panico visto ieri, basta guardare l’indice VIX, comunemente definito l’indice della paura, che balza ai massimi dal 2009 nella sua escursione al rialzo più ampia da che storia ricordi.
Valute. Il generale processo di alleggerimento di posizioni coinvolge naturalmente anche le divise mondiali; malgrado una evidente fuga dal rischio che torna a privilegiare i porti storicamente sicuri come i Treasury Americani (con il decennale scivolato sotto quota 2%) i flussi di diversificazione non sono sufficienti a contrastare lo tsunami legato alla chiusura di operazioni speculative di marca rialzista sul dollaro che hanno costituito una delle maggiori scommesse degli ultimi mesi. Tale flusso di short covering su euro (ma non solo, visto l’apprezzamento dello yen nell’ordine del 3%) è di tale portata da portare il cross euro/usd a sfiorare quota 1,18 (ovvero quasi 4 figure di scostamento dalle chiusure di venerdì) prima di una normalizzazione in area 1,1550.
L’unico appuntamento di rilievo della giornata sono le dichiarazioni dell’esponente della FED Lacker, noto falco sui tassi, che comunque prende atto di una situazione contingente “problematica” (che eufemismo!) in chiave di rialzo dei tassi.
Detto e fatto le probabilità che a settembre la FED alzi i tassi scendono al 24% (erano al 55% solo venerdì) il che consolida il senitment ribassista sul biglietto verde. A mio parere l’effetto ribassista sul dollaro si rivelerà temporaneo, ed una volta scaricati gli eccessi legati a posizioni speculative sulla divisa americana questa tornerà a riguadagnare terreno, complici i già citati flussi di diversificazione su una divisa sempre privilegiata in tempi turbolenti, senza dimenticare che anche in caso la FED non alzasse i tassi (ma io continuo a pensare che a settembre agirà, anche perché una marcia indietro sarebbe probabilmente percepita come ancor più preoccupante dai mercati) , gli altri (compresa Pechino da cui adesso ci si aspetta un piano di stimolo in grande stile sul modello del 2008) , continuano a svalutare e stampare moneta, quindi di fatto il dollaro è destinato ad apprezzarsi non in forza di una manovra attiva quanto soggetto passivo in un quadro di generale super allentamento.
Commodity. Falcidiate anche le materie prime; d’altra parte se la preoccupazione qui è il rallentamento della Cina, più grande consumatore oltre che produttore mondiale, le commodities devono per forza soffrire. Il petrolio mette a segno una flessione superiore al 6% ieri in chiusura saltando a piè pari linea Maginot dei 40$/barile. I metalli non ferrosi sono pesantemente bersagliati con il Nickel che si avvicina a tratti al livello toccato solo per un attimo in occasione del flash crash del 12 agosto (9.100$) rasentando perdite percentuali a doppia cifra, e gli altri del comparto tutti in flessione tra il 3% ed il 5%.
Si salva solo l’oro che comunque resiste ma non beneficia dalla fuga dal rischio rimanendo abbarbicato a quota 1.150$, ulteriore segnale insieme al dollaro, che per ora si pensa a vendere tutto demandando il processo di reallocation a fasi successive, una volta depositato il polverone alzato da questa tempesta. In questo senso rimango fiducioso che ora che l’incrollabile fiducia sui listini azionari è seriamente scalfita, i metalli non ferrosi possano tornare a riassumere interesse nella comunità finanziaria, anche perché i prezzi sono tutt’altro che disprezzabili, con l’indice generale misurato da Bloomberg ai minimi di 16 anni…(senza dimenticare che se viene meno la fiducia nella finanziarizzazione globale, assets “concreti” potrebbero essere una più che valida alternativa.)
Non è il 2008 …
1) Allora i mercati e la Banche Centrali temevano l’inflazione (il petrolio viaggiava sui 130$/barile), oggi il timore è semmai la deflazione.
2) La Cina aveva un indebitamento pari ad un”modesto” 100% del PIL (7 trilioni di usd), a metà del 2014 eravamo a 282% del PIL (28 trilioni).
3) Le Banche Centrali avevano un arsenale di strumenti (TARP, TARF, BARF (☺) , QE, ZIRP, acquisto diretto di mutui, etc…). Oggi la scatola delle magie è desolatamente vuota, dato che dal 2008 non hanno praticamente mai smesso di usare gli stessi mezzi implementati (inizialmente come misura eccezionale) nel 2008.
4) I tassi di interesse erano risaliti dopo i postumi del 2000-2003; nel 2006-2007 i tassi della FED erano sopra il 5%, mentre il Prime Lending Rate si attestava all’8%. Oggi i tassi sono schiacciati a zero (se non in alcuni casi, sotto zero).
5) Il dollaro iniziò a salire solo a fine 2008 in risposta alla crisi finanziaria, in quanto bene rifugio, oggi ha già capitalizzato un rialzo superiore al 20%.
6) Il dollaro scese bruscamente dal 2006 al 2008, e di nuovo tra il 2010 ed il 2011, ampliando i profitti delle multinazionali americane che producono all’estero tra il 40% ed il 50% del loro fatturato. Oggi il dollaro forte ha schiacciato i profitti esteri delle multinazionali, ha obbligato la Cina a svalutare ed ha messo sotto pressione le divise dei mercati emergenti.
…è peggio.

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