I motivi per un cauto ottimismo secondo Ubs Wealth Management

a cura di Mark Haefele, Global Chief Investment Officer di UBS Wealth Management

Nel CIO Year AheadIl mondo divergente dell’anno scorso, avevamo spiegato che il 2015 sarebbe stato un anno di rendimenti inferiori e maggiore volatilità. Ma una cosa è prevedere tempi difficili, un’altra è viverli. Le piazze azionarie sviluppate hanno messo a segno rendimenti totali positivi negli ultimi 12 mesi, ma il terzo trimestre 2015 è stato teatro dei ribassi trimestrali più pesanti per i listini azionari e della performance peggiore per i portafogli diversificati dal 2011, nonché della più alta impennata della volatilità dal 2008. Da allora i mercati hanno recuperato terreno, ma a mio avviso la maggiore volatilità e i rendimenti più contenuti ci faranno compagnia ancora a lungo. Il nostro mondo attraversa un’epoca di grandi transizioni, che vanno dalla politica monetaria statunitense ai motori della crescita nei mercati emergenti.

Anche il capitalismo aziendale è in fase di transizione, alla luce della tolleranza zero praticata dai governi e dalle autorità nei confronti della mancata ottemperanza delle imprese. Alcune società quotate hanno dato prova dei rischi concentrati cui si espone chi effettua investimenti eccessivi in singoli titoli. Come minimo, il crollo di Volkswagen e Glencore dovrebbe indurre gli operatori a verificare due volte (o anche tre) la convinzione nei confronti delle singole posizioni.

In questo contesto, gli investitori dovranno mantenere un orientamento di lungo periodo, per non lasciarsi distrarre dai movimenti mensili, ed evitare di assumere un’esposizione eccessiva ai rischi associati a singole aziende, oggi forse più alti che mai. Nell’ambito dell’asset allocation tattica, questo mese riportiamo a neutralità il sottopeso nei mercati emergenti. Benché il contesto fondamentale resti difficile, le cattive notizie sono ormai in gran parte scontate dai prezzi e sono aumentate le probabilità di sorprese positive in Cina.

Capitalismo aziendale in transizione Gli esperti di teoria finanziaria tessono da tempo le lodi di un portafoglio ampiamente diversificato di titoli, per evitare un’esposizione eccessiva ai rischi associati alle singole aziende, ma nell’attuale contesto politico e legale questo elemento diventa più importante che mai. Il capitalismo del laissez-faire è ormai cosa del passato. La tolleranza zero delle autorità e dei governi nei confronti della mancata ottemperanza o dei problemi delle imprese accresce la minaccia di una distruzione di valore permanente per le aziende globali. Alcuni di voi ricorderanno la Ford Pinto, un’utilitaria il cui serbatoio esplodeva facilmente in caso di tamponamento. Fu dimostrato che l’azienda era a conoscenza del difetto di progettazione, che causò più di 20 decessi, ma decise di non correggerlo. Quando fu fatta chiarezza, intorno al 1977, Ford dovette pagare danni per USD 3,5 milioni, meno dello 0,01% del suo fatturato. Il risarcimento che Exxon fu condannata a pagare per l’incidente della petroliera Valdez del 1989 fu di poco superiore a USD 1 miliardo, ovvero l’1% dei ricavi annuali dell’azienda. Queste cifre sono in netto contrasto con le ingenti sanzioni comminate negli ultimi anni ad altre società per varie infrazioni. L’ipotesi di accordo per il risarcimento degli enormi danni ambientali causati dal disastro della piattaforma Deepwater Horizon di BP nel 2010 ammonta a USD 20,8 miliardi, pari al 7% del fatturato della società. Nel frattempo, da quando è emerso che Volkswagen truccava i test delle emissioni inquinanti, la sua capitalizzazione di borsa è crollata di quasi il 32%, poco più di EUR 24 miliardi, un’indicazione dell’importo che secondo il mercato l’azienda dovrà pagare tra multe, costi e danno alla reputazione.

Nel 2014 le penali e i risarcimenti negli Stati Uniti hanno raggiunto un totale di USD 180 miliardi, un importo più che triplicato in soli cinque anni che ha fatto segnare un nuovo record dopo quello del 1998, l’anno di un maxi risarcimento nel settore del tabacco. Non aumenta solo il rigore delle sanzioni, ma anche il loro volume: nel 2013 e nel 2014 sono state comminate ben 24 multe sopra USD 1 miliardo, il doppio rispetto a cinque anni prima. E sembra che nessun settore possa mettere gli investitori al riparo dai rischi, poiché le penali superiori a USD 1 miliardo hanno interessato aziende di ogni tipo: non solo le società di servizi finanziari di cui tanto si parla, ma anche produttori di chip, case automobilistiche, aziende farmaceutiche e società dell’energia. La gamma di infrazioni punite con il pagamento di ingenti danni è altrettanto ampia e spazia dai disastri ambientali alla violazione di sanzioni e da comportamenti non conformi alle norme antitrust a illeciti fiscali. L’idea che le società siano chiamate a rispondere delle loro azioni non costituisce una minaccia per il capitalismo in senso lato, ma – come mi accingo a spiegare – gli investitori devono già affrontare tanti rischi «involontari» che possono anche fare a meno dei rischi «volontari» derivanti da un’eccessiva concentrazione in singoli titoli. Tuttavia, circa il 16% dei nostri clienti detiene attualmente più del 20% del portafoglio nei titoli di una sola azienda.

Incertezza in vista Anche per gli investitori che sono riusciti a evitare alcuni dei problemi legati a singole aziende, gli ultimi mesi sono comunque stati difficili in termini di rendimenti dei mercati finanziari. La ragione più semplice della flessione del mercato – che le azioni non salgono in linea retta – potrebbe essere la più vera, ma continuiamo a monitorare attentamente tre importanti fattori collegati al ribasso.

Conto capitale della Cina: benché la svalutazione dello yuan ad agosto sia stata relativamente modesta (circa il 3%), le sue potenziali implicazioni continuano a destare apprensione. Innanzitutto, persiste il sospetto che la Cina cada nella tentazione di sfruttare il deprezzamento valutario come forma di stimolo economico. Un più rapido indebolimento dello yuan esporterebbe inflazione al resto del mondo, danneggiando le economie degli altri paesi esportatori in Asia. Inoltre, anche se la Cina non seguisse questo approccio e stesse solo cercando di liberalizzare il suo conto capitale, persiste l’incertezza circa la potenziale direzione dei flussi finanziari, con conseguenze importanti: una continua fuga di capitali potrebbe far salire i tassi d’interesse nazionali cinesi e mettere in pericolo il credito. A seguito della riduzione delle riserve valutarie, Pechino potrebbe essere meno preparata per una crisi futura. Presteremo attenzione a eventuali annunci sulla politica del conto capitale in occasione del quinto plenum del Partito comunista, dal 26 al 29 ottobre.

Politica statunitense: la direzione della politica monetaria statunitense è sempre più incerta. Ci auguriamo che il Congresso promuova le prospettive globali di lungo periodo ratificando lo storico Partenariato Trans-Pacifico, ma non si può escludere che metta in difficoltà i mercati con un altro shutdown del governo federale. Inoltre, in vista dell’incontro della Federal Reserve (Fed) del 27-28 ottobre, l’inasprimento monetario a lungo atteso potrebbe non avere luogo. Lo scrittore Milan Kundera disse che «la civetteria è una promessa di coito non garantita»; secondo questa definizione, la Fed sta civettando con i rialzi dei tassi. Anche se i massimi esponenti della banca centrale americana hanno dichiarato che prevedono di operare la prima stretta entro fine anno, stando ai prezzi dei future i trader credono più al messaggio secondo cui le decisioni della Fed dipenderanno dai dati e pertanto non si aspettano un aumento del costo del denaro fino al 2016. Le comunicazioni poco chiare, come in questo caso, tendono ad aumentare la volatilità dei mercati.

Utili: i mercati sviluppati possono sganciarsi solo fino a un certo punto da un rallentamento dei mercati emergenti. Gli indici dei responsabili degli acquisti del settore manifatturiero, pur mantenendosi in territorio positivo, si sono deteriorati negli ultimi mesi. L’attività produttiva costituisce solo una quota ridotta del PIL delle economie sviluppate, ma spesso rappresenta un indicatore anticipatore per gli altri settori. Monitoriamo attentamente gli utili del terzo trimestre per rilevare eventuali segnali di una decelerazione generalizzata.

Motivi per un cauto ottimismo Nonostante le domande ancora aperte, crediamo che gli eventi di agosto e settembre siano riconducibili solo a una correzione e non rappresentino la prima fase di una recessione globale. Questa tesi si basa su tre osservazioni principali.

Emergono segnali di stabilità in Cina: nel terzo trimestre la crescita del PIL è rimasta stabile al 6,9% annuale, superando le attese. Si tratta di un dato rassicurante poiché indica che il rallentamento del settore industriale (solo +6,0% nei 12 mesi a settembre) è in parte compensato da un’accelerazione dei servizi (+8,4%). Gli indici dei responsabili degli acquisti restano sotto quota 50, livello che indica una contrazione, ma mostrano a loro volta segnali di stabilizzazione. Inoltre, i dati sulle esportazioni hanno cominciato a migliorare e ora il renminbi è relativamente stabile, poiché sono diminuite le fuoriuscite di capitali. A loro volta, le vendite di immobili nelle prime 30 città cinesi sono salite del 21,6% a settembre, mitigando i timori di una nuova crisi del mercato delle case, e le vendite di auto sono aumentate del 6% a settembre, il primo dato positivo da giugno. In sintesi, i dati recenti puntano più in direzione di un rallentamento che di un tracollo.

I consumatori continuano a spendere: come ho già detto, i dati manifatturieri denotano un indebolimento, ma il settore rappresenta solo una quota ridotta del PIL delle economie sviluppate e, finché i dati sul settore dei servizi rimangono solidi, restiamo relativamente fiduciosi nelle prospettive generali. Negli Stati Uniti, ad esempio, le vendite di auto hanno toccato ben 18,1 milioni su base annualizzata a settembre, il ritmo più sostenuto da un decennio. La fiducia dei consumatori dell’Eurozona rimane elevata e, nonostante i dubbi legati all’industria cinese, le vendite al dettaglio sono nuovamente cresciute di oltre il 10%, compensando in parte le prospettive meno rosee di altri comparti dell’economia.

Le banche centrali restano disposte e pronte a intervenire per sostenere la crescita e stabilizzare i mercati: la Federal Reserve, la Bank of Japan e la Banca centrale europea hanno indicato che sono intenzionate a reagire in caso di deterioramento dei fondamentali o tendenze di mercato poco auspicabili. Soprattutto, sembra che finalmente gli investitori le stiano ascoltando. I rendimenti obbligazionari non sono saliti durante il recente recupero azionario e ciò potrebbe significare che gli investitori si aspettano ulteriori interventi mirati a tenere bassi i tassi d’interesse. Il recupero registrato dall’inizio del quarto trimestre indica che i mercati potrebbero cominciare a pensarla come noi, ma continueremo a monitorare attentamente i dati e il sentiment di mercato.

Variazioni tattiche A fronte dei recenti segnali di stabilità in Cina e della ritrovata fiducia del mercato nelle politiche delle banche centrali, sovrappesiamo gli attivi rischiosi. Tuttavia, questo mese abbiamo apportato un cambiamento alla nostra asset allocation tattica. Abbiamo riportato a neutralità il sottopeso nei mercati emergenti, finanziando l’operazione mediante una riduzione del sovrappeso nelle azioni dell’Eurozona, che resta comunque il nostro mercato azionario preferito su scala globale. Dopo un decennio di aspettative troppo alte per i mercati emergenti, l’ottimismo nei confronti della regione è scemato negli ultimi anni, quando Brasile e Russia sono stati travolti da recessioni fino a quel momento impensabili. Gli investitori si sono ritirati dalla regione e le allocazioni di portafoglio nei mercati azionari e obbligazionari emergenti sono scese da circa il 17,3% nel 2013 all’attuale 15,6%, al di sotto della media dal 2008.

A nostro avviso i mercati emergenti sono scesi tanto che possono bastare notizie moderatamente positive per dare nuova linfa alle quotazioni. Ad esempio, l’MSCI Emerging Markets Index quota con un rapporto prezzo/valore contabile di 1,4 volte contro la media storica di 1,9, mentre le valutazioni sono decisamente inferiori ai minimi toccati dopo la crisi del 2008. Una buona notizia potrebbe giungere da una stabilizzazione dei margini di profitto netti, che sono scesi continuamente dal 2007 ma mostrano segnali di consolidamento. Sembra che anche l’impatto negativo del calo dei prezzi delle materie prime si stia attenuando e la crescita della produzione industriale nei mercati emergenti supera quella dei mercati sviluppati con il divario più alto da oltre due anni. Detto ciò, il quadro fondamentale resta difficile e siamo cauti nei confronti del potenziale impatto della stretta monetaria statunitense sui mercati emergenti più dipendenti dai finanziamenti esteri. Ci aspettiamo una crescita degli utili dei mercati emergenti del 4-6% nei prossimi 12 mesi, ancora decisamente inferiore all’8-12% previsto per le società dell’Eurozona. Per questo motivo passiamo a una posizione di neutralità, anziché a un sovrappeso.

Infine, abbiamo recentemente chiuso la sovraponderazione nella sterlina britannica contro il sottopeso nel dollaro australiano, che da maggio ha fruttato quasi l’8%. Le pressioni negative sull’economia australiana dovrebbero diminuire nei prossimi mesi a fronte di una stabilizzazione della Cina. Il ribasso del minerale di ferro, la maggiore fonte di ricavi esteri del paese, ha perso slancio. Inoltre, il dollaro australiano presenta ora valutazioni eque rispetto alla sterlina britannica in base alla parità del potere d’acquisto.

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