Tentori (Axa): occhio alle relazioni fra banche centrali, economia reale e mercati finanziari

A cura di Alessandro Tentori, Cio di Axa IM Italia

“Don’t fight the Fed” recita un vecchio adagio di Wall Street. In effetti, quando vogliono i banchieri centrali ci sanno fare coi mercati. Ammetto che si tratta di un gioco semplice: la Borsa scricchiola? Immetti liquidità sul mercato, possibilmente a costo zero. L’effetto positivo sui listini di Borsa di questa politica – sia essa in forma convenzionale oppure non – è innegabile. Negli ultimi cinque mesi, il bilancio aggregato di Fed, Bce e BoJ è aumentato di 5850 miliardi di dollari (+40%), una impennata che ricorda il 2008/2009 anche se allora i volumi erano molto più contenuti. Non stupisce col senno di poi, il +46% registrato sull’S&P 500 dai minimi di marzo, né l’ottima performance dell’obbligazionario (+9%) e dell’high yield in particolare (+25%).

In questo breve commento vorrei ragionare su un aspetto che viene spesso rilegato in secondo piano rispetto alle performance: la causalità della politica monetaria.

In teoria, un banchiere centrale è al cospetto di un problema di ottimizzazione dinamica, cioè in ogni periodo deve agire in modo ottimale rispetto alla decisione iniziale e all’obiettivo prefissato. Per fortuna, questo problema matematico è già stato risolto da Richard Bellman nel 1953 (aka Principio di Bellman). Questo principio scompone la strategia ottimale in una sequenza temporale di decisioni, facilitando così di molto il processo decisionale originale. Ricapitoliamo: il banchiere centrale apre o chiude il rubinetto della liquidità in funzione dello stato dell’economia e dell’obiettivo da raggiungere nel medio periodo.

Ok, ci sono due problemi: 1) tra l’apertura del rubinetto e gli effetti misurabili sull’economia possono intercorrere dei mesi (chiamati da Milton Friedman “long and variable lags”); 2) la complessità del problema di trasmissione di politica monetaria rimane comunque difficilmente trattabile, nonostante l’applicazione del principio di Bellman.

Il lettore mi perdonerà questo preambolo che sconfina nei meandri della teoria, ma a mio parere è funzionale alla comprensione della politica monetaria moderna. Esiste una variabile che riassume tutte le informazioni sull’economia in tempo reale, senza ritardi, senza distorsioni. Si tratta del mercato azionario. Non sorprende quindi la predilezione del banchiere centrale a esercitare la propria influenza sui mercati, piuttosto che sprecare le munizioni tentando di controllare gli aggregati macro come il Pil e la inflazione. La ricetta è cambiata, una volta la politica monetaria si concentrava sull’economia e i mercati reagivano alle aspettative macro. Oggi, invece, la politica monetaria influenza i mercati, li stabilizza, li fa crescere, li fa transitare di bolla in bolla (ammesso che le bolle finanziarie esistano, io non lo credo), nella speranza che l’economia reagisca a questi stimoli nel medio periodo.

In conclusione, cosa significa tutto ciò per noi investitori? Significa che siamo passati dalla strategia Greenspaniana di “clean” (i.e. fare pulizia dopo un lungo periodo di laissez-faire finanziario) a una strategia di anticipazione del potenziale problema finanziario (“lean”), sia esso derivato dalle valutazioni, dalla leva finanziaria eccetera. Significa che le banche centrali sono sempre più sensibili ai periodi di debolezza dei mercati, essendo i mercati stessi diventati lo strumento primario di trasmissione monetaria. Significa, che le aspettative degli investitori devono necessariamente scontare questa “central bank put” nelle valutazioni del rischio e del rendimento. Ovviamente, questa politica implica anche enormi costi sociali, ma lascerei il dibattito sulla zombificazione dell’economia ai prossimi commenti.

Nel frattempo, il vecchio adagio di Wall Street è ancora valido, anche se è cambiata la colonna sonora.

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