Hanno ancora senso i tassi negativi della Bce?

A cura di Alfonso Maglio, Head of Research Department di Marzotto Investment House

Il petrolio è un mercato estremamente complicato. Si tratta infatti di un mercato globale contraddistinto da molte Analizzando gli eccessi verificatisi negli ultimi anni sulle principali classi di investimento, non si può non considerare il ruolo avuto dal Quantitative Easing.

Premesso che la sua implementazione da parte delle banche centrali in una fase di mercato estremamente critica ha salvato molte situazioni dal rischio di avvitamento, ad oggi non è ancora chiaro quanto sia andato sull’economia reale e quanto sia stato utilizzato esclusivamente per scopi finanziari.

Analogamente, non è ancora chiaro se un suo perdurare sia necessario per evitare una nuova recessione oppure, al contrario, se non sia causa di un indebolimento delle economie che potrebbero perdere gli anticorpi che hanno avuto in passato per reagire a tutte le grandi e piccole crisi che si sono susseguite.

 

Fed e Tesoro Usa insieme nel 2008

Trovandoci a metà del guado, sicuramente l’esperienza statunitense è quella più facile da valutare e promuovere. Dopo la crisi di Lehman del settembre 2008, il Ministero del Tesoro e la FED hanno agito in contemporanea. Il primo fornendo prestiti e capitale azionario ai più grandi gruppi finanziari e industriali del paese, la seconda portando molto rapidamente i tassi verso lo zero.

La differenza tra la esperienza statunitense e quella delle altre grandi banche centrali, soprattutto la BCE e la BOJ, sono state l’efficacia e la durata del QE. Gli Stati Uniti già nel secondo semestre 2009 sono stati caratterizzati da un PIL ampiamente positivo. Il Tesoro tra il 2010 e il 2012 ha venduto quasi tutte le partecipazioni (AIG, Citi, JPM) non solo recuperando quanto immesso, ma realizzando anche importanti utili che sono andati nel bilancio dello stato e quindi a favore dei contribuenti.

Prima tra le grandi banche centrali la FED ha poi cominciato già alla fine del 2015 un processo di “normalizzazione” che ha riportato i Fed Funds al 2,5% a fine 2018, prima che un intervento (che solo pochi anni fa avrebbe causato un crollo degli indici azionari) del presidente Trump minasse, forse definitivamente la sua indipendenza dalla politica.

In ogni modo la FED, sebbene sembrerebbe avere fatto marcia indietro, è stata anche la prima banca centrale a smontare, attraverso cessioni sul mercato secondario, una minima parte dell’ammontare di titoli di stato comprati nel processo di easing monetario.

 

Come si sono mosse Bce e BoJ

Al contrario della FED che ha comunque dalla sua un’economia molto più reattiva, BCE e BOJ continuano con il QE (la BCE ricompra tutto quello che scade) non volendo correre il rischio di lasciare le rispettive economie alle forze di mercato, cosa che prima o poi dovrà accadere comunque, a meno di non arrivare ad una almeno parziale monetizzazione del debito.

La BCE con il nuovo TLTRO 2019-2021 annunciato il 7 marzo scorso alle stesse condizioni di tasso del precedente, anche se sono stati esclusi i mutui per non creare una bolla immobiliare ha a nostro avviso perso una occasione per tastare il mercato con un tasso di interesse più vicino allo zero.

Rendimenti a 5 anni del titolo di stato tedesco “benchmark”

La questione qui è delicata, anche se lo stesso FMI ha elogiato questa nuova decisione della BCE. Ci sono infatti due punti su cui occorre riflettere:

  • Il tasso di inflazione target è fissato da quasi tutte le banche centrali al 2%. Di conseguenza, fino a che non verrà raggiunto, ci sono spazi per aumentare la liquidità nel sistema. Il 2% nondimeno è un “benchmark” del tutto “soggettivo” che teoricamente potrebbe essere cambiato in qualsiasi momento. Considerando le minori dinamiche inflazionistiche rispetto al passato, dovrebbe teoricamente essere ridotto. Teniamo conto che i tassi reali sono al momento sensibilmente negativi (eccetto il BTP e pochi altri), perché quasi tutti i titoli di stato a 10 anni rendono meno della rispettiva inflazione
  • Il secondo punto che vale soprattutto per l’Eurozona, è che i tassi di interesse negativi danneggiano la redditività delle banche. Di conseguenza, banche più profittevoli avrebbero meno bisogno di misure specifiche implementate dalle banche centrali.

 

L’argomento sull’impatto dei tassi negativi sulla crescita e sulle dinamiche è molto dibattuto. Da un lato alcuni economisti sostengono che tassi negativi fanno scendere vicino allo zero il costo del debito per la maggiore parte delle aziende, con un riflesso positivo su tutta l’economia. Altri sostengono che da un lato si mina la capacità di reddito delle banche, dall’altro si alimenta l’azzardo finanziario come sembrerebbe essere avvenuto. Da diversi trimestri sosteniamo che il portafoglio dell’investitore medio è molto più rischioso che in passato e che tassi di interesse “artificiosamente” negativi finiscono per aumentare inconsapevolmente la propensione al rischio.

Un’altra conseguenza a nostro avviso negativa dei tassi di interesse negativi è la definitiva rottura delle correlazioni che storicamente ci sono sempre state tra azioni e obbligazioni. Ad una crescita economica forte corrispondevano, solitamente, un mercato azionario effervescente e una politica monetaria progressivamente più restrittiva. La diversificazione permetteva di bilanciare tra un azionario con performance positiva e un obbligazionario che dipendeva dalla duration scelta. Analogamente nelle fasi di mercato contraddistinte da un azionario in calo, le obbligazioni permettevano di ridurre se non addirittura di eliminare il rischio di performances negative.

Con il QE la situazione cambia. Azioni e obbligazioni tendono a muoversi insieme.

Ed è a nostro avviso chiaro che nel momento in cui un Bund a 5 anni rende oltre 40 bps meno dello zero, anche parlare di una bolla speculativa è eufemistico. Siamo perciò in una situazione in cui tra l’azionario statunitense (vedere la nota su Kraft Heinz), il debito societario e il reddito fisso soprattutto europeo, c’è effettivamente il rischio di una bolla il cui eventuale scoppio, potrebbe impattare negativamente su diverse asset class in simultanea rendendo difficile la protezione del portafoglio (vedere le nostre note sull’oro).

Detto tutto questo, se riteniamo che l’obbligazionario statunitense (benchè a fronte di un debito crescente) sia sostanzialmente in equilibrio, quello europeo dovrebbe perlomeno riportare la curva a breve termine sopra lo zero. A settembre il mandato di otto anni del governatore Draghi scadrà e molto probabilmente il sostituto potrebbe essere olandese o di una delle banche centrali nordeuropee. In ogni caso più vicino alla Germania che alla periferia europee. Quali sono le esigenze del sistema bancario nordeuropeo? Non avendo problemi di NPLs, la loro esigenza sarebbe di avere tassi almeno a zero (se non addirittura positivi) sulla parte breve della curva, in modo da massimizzare la forchetta tra tassi attivi e passivi.

La nostra tesi è che titoli di stato a rendimento negativo non abbiano senso per un investitore a meno che non si voglia speculare su un effetto “rarità” (come per alcune specifiche emissioni di Bund detenuti in gran parte dalla BCE), oppure come assicurazione contro una possibile rottura dell’Eurozona (ipotesi possibile ma molto poco probabile).

Al contrario, il rendimento dei bonds europei è a nostro avviso da monitorare attentamente perché un eventuale spostamento dei tassi di interesse della parte breve della curva dei rendimenti verso lo zero avrebbe due effetti immediati:

  • Sarebbe molto positivo per l’euro e probabilmente lo rafforzerebbe contro la maggiore parte delle valute. Una elevata diversificazione valutaria, in questo caso, potrebbe risultare negativa.
  • Il settore bancario ne trarrebbe vantaggio sia sul lato delle azioni che sui bond subordinati.

 

Concludendo

Negli Stati Uniti il processo di normalizzazione è concluso da anni, Giappone e Eurozona sono ancora in una fase intermedia. Il cambio di presidenza alla BCE in settembre potrebbe cambiare l’approccio: la politica monetaria rimarrà espansiva ma con uno spostamento della parte breve della curva dei rendimenti verso lo zero. Le aziende europee a nostro avviso ne avrebbero un impatto negativo circoscritto (visto che per ogni prestito bancario solitamente lo zero è un floor), le banche al contrario un grande beneficio.

Soprattutto, anche la BCE aumenterebbe nuovamente la flessibilità prospettica, come è avvenuto per la FED. Se questa tesi dovesse essere confermata, ne trarrebbero vantaggio da un lato l’euro e dall’altro azioni ed obbligazioni del settore finanziario.

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