Le azioni cicliche in un mondo post-Covid

“Negli anni dell’austerità andavano ‘di moda’ la disinflazione e le azioni di crescita mentre l’inflazione e le azioni di valore erano ‘fuori moda’. A novembre scorso però le cose hanno cominciato a cambiare. La rotazione dalle azioni che erano state vincenti negli ultimi cinque anni a quelle che erano in ritardo (energia, materiali) potrebbe essere ancora nella fase iniziale, ma alcuni cambiamenti sono stati rilevanti”. Lo osserva Jacob de Tusch-Lec, gestore del fondo Artemis Funds (Lux) Global Equity Income fund. Di seguito la sua visione sulle prospettive delle azioni cicliche.

È possibile che siamo al punto in cui si debba invertire la strategia – rivelatasi sinora indovinata – incentrata sugli investimenti in low tech, crescita, momentum e disruption, da un lato, e sulla vendita allo scoperto di titoli “value”, dei mercati emergenti e dell’Europa, dall’altro?

2021: di ritorno nel mondo reale?

Il 2021 potrebbe rivelarsi, dopo tanti anni, il primo in cui il tasso di crescita secolare di lungo termine del settore tecnologico statunitense è superato dai tassi di crescita ciclica a breve termine, per esempio, di titoli del settore automobilistico o minerario, che sono passati in secondo piano da prima della crisi finanziaria…

Nella prima metà del 2020 la pandemia ha fatto accelerare l’adozione di una serie di servizi online. Nel 2021, però, sembra difficile che quei tassi di crescita possano essere sostenibili, o addirittura superati, specialmente se le persone riprendono a vivere, a socializzare, a lavorare nel mondo reale e a passare meno tempo a casa e online.

Vaccinazioni efficaci per il Covid-19 rendono possibile lo scenario in cui le economie occidentali cominceranno a seguire il percorso tracciato dall’Asia, dove i dati sull’economia offrono uno sguardo lusinghiero su un futuro post-Covid, visto che in alcune parti di quel continente la pandemia è ormai acqua passata. La Cina cresce di nuovo a ritmi pre-pandemici e sta acquistando materie prime a tutto spiano. Il prezzo del rame, la materia prima maggiormente necessaria alla costruzione di un futuro tecnologicamente avanzato basato sull’energia verde e sull’auto elettrica, ha raggiunto di recente livelli record per gli ultimi sette anni.

Al contempo siamo consapevoli che, proprio mentre la domanda di beni materiali sta rimbalzando, i livelli delle scorte lungo la catena di approvvigionamento globale sono bassi. I produttori di auto, per esempio, hanno bisogno di acciaio inossidabile ma, con progetti minerari chiusi o messi in naftalina, i produttori di acciaio si trovano di fronte ad una carenza di minerale ferroso.
Con l’aumento della domanda e il ritorno del potere di prezzo, l’effetto della leva operativa determinato dagli utili dei produttori nelle industrie di base – quali quelle minerarie – potrebbe essere spettacolare.

Il prezzo del rame – una materia prima fondamentale per la “rivoluzione verde” – è schizzato verso l’alto. (Fonte: Refinitiv Datastream al 24 gennaio)

Comunque, la tesi a favore delle azioni cicliche non si esaurisce con una ripresa della domanda. È anche, a nostro avviso, una questione di cambiamento geopolitico a lungo termine.

Cina, deglobalizzazione e output gap

L’impatto dirompente del Covid-19 – l’accelerazione che ha impresso all’adozione di nuove tecnologie e alla fine di settori tradizionali – è chiaro. D’altro canto, forse è meno chiaro il processo di deglobalizzazione che ha attivato. Il mondo si sta scindendo in un blocco economico dominato dalla Cina, una “Sinosfera”, e in uno dominato dagli Usa, una “Anglosfera”.

La Cina vuole chiaramente dipendere meno dagli Usa per le sue esportazioni e per la tecnologia ivi sviluppata. Il relativo successo registrato nel controllare il coronavirus ha invogliato ancora di più la Cina a perseguire quell’obiettivo. Inoltre, i sospetti nutriti dagli Usa nei confronti della Cina costituiscono ora un aspetto strutturale delle dinamiche geopolitiche di lungo termine, e non semplicemente un sintomo del trumpismo.

Con questo vogliamo dire che, se le due potenze che si sganciano dalla condizione di reciproca dipendenza, è probabile che le catene di approvvigionamento si accorcino e siano meno integrate. Questo significa una maggiore duplicazione di impianti e macchinari e, di conseguenza, dopo un decennio in cui le imprese hanno congelato gli investimenti, ci sarà un aumento della domanda di beni capitali. Questo bisogno è particolarmente acuto se si considera che, nell’ultimo decennio, le società hanno in genere utilizzato la liquidità in eccesso per ricomprare azioni proprie o per ridurre l’indebitamento anziché investire, specialmente nei settori minerario, energetico e dei beni capitali.

Nell’era dell’inflazione…

Questa ritirata dalla globalizzazione ha conseguenze per gli output gap e quindi, potenzialmente, per l’inflazione, specialmente quella dei prezzi dei beni e delle materie prime. A partire dallo shock procurato dalla crisi finanziaria di più di dieci anni fa, gli output gap nell’economia globale sono negativi: ci sono dei rallentamenti nel sistema che privano i produttori del potere di prezzo.

Il sistema ha la capacità per produrre acciaio, navi e tutti i prodotti in genere, in misura notevolmente superiore alla domanda di mercato. D’altro canto, la capacità inutilizzata esiste solo quando l’economia è vista nel suo insieme, in termini aggregati e globali. Si consideri la capacità degli Usa di produrre qualcosa – i microchip per esempio – e l’apparente eccesso può trasformarsi presto in una carenza.

In un mondo in via di deglobalizzazione molte delle cose che davamo per scontate – come il fatto che la capacità produttiva della Cina fosse un fattore deflattivo quasi permanente per l’economia mondiale – dovrebbero forse essere riesaminate. Non siamo ancora a quel punto, però… In ogni caso riteniamo che valga la pena intavolare questa discussione, e ricordarcene quando costruiamo un portafoglio di investimento globale.

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