Mercati depressi dai segnali di debolezza dell’economia Usa

A cura di Wings Partners Sim

Pesante bordata all’ottimsimo dei mercati ieri alla pubblicazione del dato sull’ISM manifatturiero americano che manca clamorosamente le attese (49,1 contro attese a 51,2) entrando in territorio di contrazione per la prima volta dal 2016; particolarmente pesante il calo dei nuovi ordinativi che fanno segnare il peggiore risultato storico al di fuori della Grande Crisi Finanziaria mentre la contrazione registrata dall’indice sull’occupazione getta delle ombre sulle previsioni relative al nodale dato di venerdì relativo al mercato del lavoro Usa con stime allineate a 158.000 nuovi occupati.

Il deludente dato americano non è tuttavia l’unico elemento di preoccupazione a condizionare i mercati ieri; tweeets presidenziali a parte (Trump ha affermato che se la Cina continuerà a temporeggiare e lui verrà rieletto nel 2020, le negoziazioni saranno molto più dure) anche un’altra economia asiatica inizia a dare segnali di sofferenza con l’India che fa segnare un Pil nel secondo trimestre pari al 5% che è il tasso di crescita più debole da sei anni a questa parte mentre l’indice PMI manifatturiero del paese misurato da IHS Markit fa segnare 51,4 in agosto, in calo dal 52,5 di luglio e dato più debole dal maggio del 2018.

Nel frattempo l’attuale ennesima crisi in Argentina forse non sorprende più di tanto ma la dilazione richiesta per il pagamento di 101 miliardi di debito (di cui una buona metà dovuto al Fmi) sta suscitando perplessità negli addetti ai lavori dato che il Fmi si è già avventurato in ben 21 salvataggi del paese negli ultimi decenni mentre il Paese ha già attivato i consueti controlli sulle valute dopo un deflusso dalle riserve di ben 3 miliardi di dollari nel giro di soli due giorni. C’è comunque simpatia per l’Argentina, almeno a leggere le pagine del Financial Times che pone l’attenzione sullo storico rapporto tra il padre di Macri e Trump risalente a una collaborazione in campo immobiliare negli anni 80, quindi probabilmente, fatto 21 faremo anche 22….

Lo shock esercitato dai dai Usa mette letteralmente le ali al comparto dei preziosi ieri, con l’oro che fa segnare un rialzo pari a 26 dollari l’oncia che lo porta ai nuovi massimi di periodo poco sotto quota 1.560 dollari l’oncia e l’argento che fa segnare la migliore chiusura dall’ottobre del 2016 con oltre 1$/oncia di rialzo che ne porta le quotazioni a 19,36 dollari l’oncia; l’entusiasmo si espande anche al Platino che chiude a 961$/oncia (+30$) ma non al Palladio che si limita a consolidare sui prezzi di apertura a 1.533 dollari l’oncia.

Al di la delle inquietudini di breve alla base della attuale forza di oro e argento vi è inevitabilmente il venir meno del luogo comune per il quale questi metalli non paghino interessi ed affidino le loro performance puramente al rialzo delle loro quotazioni; con ben 17 trilioni di debito che oggi pagano interessi negativi (+4 trilioni solo il mese scorso) la normale concezione di “costo-opportunità” appare sovvertita, specie in un contesto in cui anche l’ultimo baluardo di interessi attivi, gli Usa, sta rapidamente capitolando con il decennale ieri a 1,429% ed il trentennale a 1,9619% ad un passo dai minimi storici di 1,9028% toccati in agosto. Non per altro oggi Bnp Paribas aggiorna gli obbiettivi di prezzo dell’oro ad un anno a 1.600 dollari l’oncia prevedendo al contempo ben 4 tagli dei tassi da parte della Fed tra qui ed il giugno 2020 per contrastare le spinte recessive.

Le buone perfomance dei preziosi avvengono a discapito di un dollaro ancora forte e ieri in predicato di rompere quota 100 come indice (USDX) contro il principale paniere di valute prima della seppur lieve correzione innescata dai deludenti dati macro; si riprende la sterlina (1,2150) dopo la sconfitta parlamentare di BoJo e la probabile dilazione della Brexit al 31 gennaio 2020 mentre rimane sempre estremamente debole lo Yuan cinese questa mattina a 7,15 contro usd ed in calo del 5% da inizio anno (-12,5% dall’inizio dell’applicazione dei dazi a metà 2018).

L’attuale debolezza della divisa cinese potrebbe essere uno degli elementi alla base delle performance deludenti messe a segno dal comparto dei metalli non ferrosi in queste ultime settimane; d’altra parte parliamo di un paese che consuma tra il 40% ed il 70% dell’offerta globale di materie prime.

Ieri giornata molto attiva sui warrants Lme con la cancellazione di 22.700t di rame, 6.000t di nickel e 5.300t di zinco; i warrants cancellati su rame sono ora saliti dalle 30.000t di metà estate a 118.000t portando il peso del materiale indisponibile sul totale dal 9% al 36% in pochi giorni. Forse per questo registriamo tra ieri e questa mattina un risveglio nella volatilità del metallo rosso a metà sessione ieri tocca i minimi dal maggio 2017 a 5.518 dollari per poi invertire bruscamente rotta con un rialzo in chiusura di circa 100 dollari dai minimi ed un ulteriore allungo nelle prime ore di contrattazione odierne (ricordo giorno dichiarazione opzioni di settembre) verso quota 5.700 dollari.

Di contro inaspettatamente tranquille le quotazioni del Nickel, assiepate in area 18.000 dollari e forse pronte ad una fase correttiva dopo gli eccessi delle giornate passate. L’Indonesia aveva già annunciato un ban delle esportazioni nel 2014 (innescando un forte rialzo del Nickel poi sfumato a fine 2014 e inizio 2015) poi rimosse nel 2017 per dare modo agli impianti locali di aggiornare la propria capacità. Curiosamente la società che ha avuto maggior successo in questo campo è stata la cinese Tsingshan Group che negli ultimi tre anni ha letteralmente inondato il mercato cinese di acciao inossidabile e prodotti intermedi quali Pig Iron e Ferronickel. Tale situazione ha indotto la Cina a imporre dazi sulle importazioni dall’Indonesia (colpendo di fatto una propria azienda) ed è probabile che la mossa attuale sia in qualche modo una ritorsione dell’Indonesia per i dazi imposti.

In un contesto in cui la domanda di acciaio inossidabile su scala globale non appare certo nel suo momento migliore, l’attuale ban richiede essenzialmente che il minerale venga processato internamente al paese, quindi delle due una: o l’Indonesia ha suffciente capacità di raffinazione (il che implica che in luogo di minerale esporterà metallo raffinato) oppure non ce l’ha e quindi probabilmente andrà ad allentare i divieti nei mesi a venire; sia come sia eviterei di acquistare nickel sui ribassi.

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