Chi ha tirato il freno a Wall Street?

Qualcuno inizia a preoccuparsi per lo stato di forma degli Usa? L’indice Morningstar dedicato alla piazza americana nell’ultimo mese ha guadagnato (fino al 3 settembre e in euro), lo 0,34%. Sicuramente non è un sell off come quello visto a fine 2018 che ha portato la piazza americana a perdere il 4,16% dopo un anno fatto tutto di corsa, ma è comunque una performance molto lontana dal +5% fatto segnare, ad esempio, nel mese di luglio.

Indice Morningstar US market
Grafico Usa settembre

Dati in euro aggiornati al 3 settembre 2019
Fonte: Morningstar Direct

In questo scenario i fondi racchiusi nelle diverse categorie Morningstar all’equity a stelle e strisce hanno avuto un andamento contrastante. Nei segmenti large cap, le strategie blend e growth hanno guadagnato, (mediamente e rispettivamente) lo 0,37% e lo 0,66%. Le value hanno invece perso lo 0,5%. Negativo anche il trend dei fondi mid cap (-0,25%) e small cap (-1,25%).

L’allarme della Fed

A togliere ogni dubbio sul fatto che le cose per l’economia yankee non siano più quelle di una volta ci ha pensato la Federal Reserve. Durante il discorso tenuto all’ultima conferenza annuale delle Banche centrali, il numero uno dell’istituto americano, Jerome Powell ha detto che i rischi di ribasso per l’espansione economica sono aumentati. “Questo evento viene monitorato da vicino dai mercati perché ha spesso dato alla Fed l’opportunità di dire in maniera chiara quali sono le sue attese per l’economia e quali potrebbero essere le possibili risposte a un cambio della situazione congiunturale”, spiega Dave Sekera, Managing director dei corporate bond rating e della ricerca di Morningstar Credit Ratings. “I commenti di Powell sono stati interpretati come il segnale che la Fed continuerà a tagliare i tassi per cercare di dare una spinta all’economia”. Da questo punto di vista l’attenzione si sposta ora alle riunioni del Fomc (il braccio operativo della Fed) che si terranno il 18 settembre, il 30 ottobre e l’11 dicembre.

Yield al contrario

Un altro segnale interpretato come un giudizio negativo sullo stato di salute della prima economia del mondo è arrivato dall’inversione della curva dei rendimenti (quando gli interessi a lungo termine sono più bassi di quelli a breve). Questo fenomeno, peraltro già verificatosi negli Usa prima della crisi finanziaria e ripresentatosi a metà 2018 viene considerato solitamente come la previsione di una fase di recessione. In realtà il movimento non è stato così preoccupante. Nei giorni che hanno preceduto Ferragosto i rendimenti statunitensi per i titoli a 10 anni sono scesi all’1,60%, mentre quelli sui titoli del Tesoro a due anni sono scesi all’1,61%. La settimana seguente lo yield sul titolo biennale è cresciuto di quattro punti base arrivando all’1,52% mentre quello sul decennale è sceso di 2 pb all’1,53%. Il risultato è stato uno spread di un solo basis point fra i due. La differenza rispetto all’anno scorso, secondo Sekera, è che stavolta ci sono alcuni indicatori economici che puntano verso una contrazione della congiuntura.

Quale valore bisogna dare, quindi, a questo segnale? “Noi  crediamo che investire sia un lavoro più minuzioso rispetto al prendere in considerazione questi indicatori generici”, spiega Dan Kemp, Chief Investment Officer di Morningstar Investment Management. “In realtà ci sono altre questioni da tenere in considerazione. Bisogna poi considerare che l’inversione dei rendimenti si è verificata per pochi giorni. Quando vediamo eventi come questo, non dovremmo prestargli molta attenzione”.

La guerra continua

Ad aggiungere ulteriore incertezza al quadro c’è la questione della guerra commerciale fra gli Stati Uniti e la Cina. Le ultime notizie da questo fronte raccontano che Pechino ha deciso di presentare un ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio contro gli Usa per gli ultimi dazi imposti da Washington. Secondo il Ministero cinese del commercio, gli Stati Uniti avrebbero violato l’accordo raggiunto dal presidente Usa, Donald Trump, e da quello cinese, Xi Jinping, nel bilaterale avuto al G20 di Osaka a fine giugno, secondo cui i negoziatori dei due paesi avrebbero dovuto riavviare le trattative commerciali.

Da domenica 1 settembre gli Stati Uniti hanno avviato nuove tariffe del 15% su una serie di prodotti cinesi – tra cui vestiti, calzature, elettrodomestici e televisori a schermo piatto – e nello stesso giorno Pechino ha iniziato a imporre nuovi dazi su auto e greggio statunitensi. Questo significa che mentre Washington applica un’aliquota del 15% su 112 miliardi di dollari relativi a tutta una serie di merci importate da Pechino, la Cina, da parte sua, ha portato dal 5 al 10% i dazi su alcuni prodotti Usa inclusi semi di soia, auto e petrolio, per un giro d’affari che si aggira intorno ai 75 miliardi di dollari.

A cura di Morningstar

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