Economie in affanno e tensioni politiche, ma non ancora recessione

Giusto un anno dopo l’inizio della vertiginosa caduta che portò l’indice S&P 500 da livelli vicini agli attuali (2900) fino a 2350 in dieci settimane è ragionevole chiedersi se è possibile che accada qualcosa di simile anche quest’anno.

La stagionalità è quella che è

Ottobre è storicamente un mese propizio a correzioni anche drammatiche. È una sorta di grande purga per gli eccessi di entusiasmo dei mesi precedenti. Disintossica il mercato e crea le condizioni, in anni normali senza recessione, per un recupero sul finire dell’anno.

Le belle narrazioni da purgare quest’anno sono quelle di una crescita globale ammaccata ma non compromessa, di un andamento tuttora positivo dell’occupazione (anche in Europa), di un manifatturiero in affanno più che compensato da servizi che sono pur sempre l’80 per cento delle economie principali e che stanno ancora andando abbastanza bene e da consumi che continuano a crescere, anche se da qualche tempo si nota in America una certa voglia di risparmiare. Su tutto, ovviamente, si ergono in termini di policy una politica monetaria tornata ovunque decisamente espansiva e il desiderio/bisogno di Trump di un’economia solida per potere sperare di essere rieletto l’anno prossimo.

La condizione psicologica che prepara il terreno per le grandi purghe autunnali è definita dal canto suo da una contronarrazione che ridimensiona e delegittima la narrazione ottimista, introduce paure nuove e rinfocola paure antiche con le quali il mercato pensava di avere imparato a convivere.

La delegittimazione della narrazione ottimista si basa sostanzialmente su due elementi

Il primo è l’ipotesi di un contagio esteso ormai anche agli Stati Uniti della recessione manifatturiera già visibile da un anno soprattutto in Europa ma estesa ormai ad ampie zone dell’Asia. Di questo contagio americano c’erano in realtà da settimane molti segni (meno merci e prodotti trasportati, sconti crescenti sulle auto, ordini più bassi delle consegne) ma il mercato aveva deciso di ignorarli, salvo cominciare ad arrendersi all’evidenza con l’ultimo dato ISM.

Il secondo elemento della contronarrazione è l’inasprirsi progressivo dello scontro politico negli Stati Uniti quando manca ancora più di un anno alle presidenziali. Non siamo ancora ai livelli degli anni Sessanta, agli estesi scontri di piazza e al ricorso all’assassinio politico, ma la radicalizzazione è sempre più evidente. Come ha documentato il Pew Research Center, la distanza ideologica tra l’elettore medio democratico e il suo omologo repubblicano si va continuamente allargando da mezzo secolo e ha raggiunto un livello per cui l’area di sovrapposizione un tempo ampia tra i due elettorati, ovvero i punti su cui entrambi si ritrovano d’accordo, è quasi scomparsa. Il tutto è ora reso ancora più evidente dall’aggressiva campagna di impeachment condotta dai democratici e dall’altrettanto aggressiva risposta di Trump, volta tra l’altro a delegittimare Biden e a fare emergere la radicale Warren come avversario l’anno prossimo.

Quanto alle due paure ormai tradizionali, Brexit e i negoziati con la Cina, si mette in evidenza come su tutto regni la massima confusione proprio mentre per entrambe si avvicinano scadenze decisive, fine mese per il Regno Unito e le prossime due settimane per una ripresa di negoziati con la Cina che si preannunciano molto difficili.

La paura, ovvero quell’extra di irrazionale che si aggiunge ai problemi oggettivi, dovrà ora completare il suo corso fisiologico. La correzione non è quindi ancora terminata ma è improbabile, per quello che si può intravvedere, che abbia la stessa radicalità che ebbe un anno fa a quest’epoca.

Quando quel di più che c’è da vendere sarà stato venduto le borse ritroveranno il loro equilibrio, che sarà più in basso di quello che si pensava fino a tempi recenti ma non sarà catastrofico. Le possibilità che il mercato chiuda l’anno su nuovi massimi storici in America e di periodo in Europa sono ora legate a circostanze politiche, come un accordo all’ultimo minuto su Brexit, un impeachment che arriva sgonfio a dicembre e trova un senato orientato a respingerlo (come risulta a tutt’oggi) e a un clima minimamente costruttivo con la Cina (il mercato non spera più in un accordo, gli basta una tregua). Come si vede, si tratta di variabili che il mercato non controlla e su cui non ha molta visibilità.

Su quello su cui la visibilità è maggiore, utili, tassi e buy back, le notizie sono contrastate, ma nel complesso più neutrali che negative. Gli utili che vedremo nei prossimi giorni saranno leggermente più bassi di quelli di un anno fa, ma a questo gli investitori sono preparati. I tassi continueranno a scendere negli Stati Uniti, e il taglio previsto per dicembre sarà forse anticipato a ottobre. Qui quello che disturba non è il risultato, ma il fatto che la Fed appaia concedere i tagli di malavoglia. Non siamo alla distanza siderale tra mercati e Fed che c’era un anno fa, ma un residuo di incomprensione è ancora ben visibile. I buy back, dal canto loro, continueranno a costituire il maggiore supporto al mercato, ma per la prima volta da molti anni saranno inferiori rispetto all’anno scorso.

In pratica, pur sentendo sullo sfondo la campanella dell’ultimo giro per il grande rialzo azionario di questi dieci anni, restiamo dell’idea che i grandi rischi siano più per il 2020 che per il 2019. Rischi, abbiamo detto, non certezze di sciagure. Molti candidati centristi sono pronti a entrare in lizza per le presidenziali a primarie già avviate e sicuramente ci saranno colpi di scena che potranno anche risultare graditi al mercato. Per ora i bond lunghi di qualità e l’oro possono aiutare ad attutire la volatilità dei portafogli.

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