Investimenti: la fine dell’inizio

Dice la Fed che mancano all’appello otto milioni di lavoratori che ancora non hanno ritrovato il lavoro perduto con la pandemia. Con tanti disoccupati in circolazione (per non parlare degli inoccupati) possiamo essere sicuri che non ci sarà inflazione salariale. Dobbiamo quindi rimanere iperespansivi fino a che l’ultimo disoccupato non sarà ritornato al lavoro.

Dicono le imprese che il mercato del lavoro è tiratissimo e che pochi si presentano ai colloqui di selezione, tanto che McDonald’s, in Florida, si è messa a offrire 50 dollari a chi accetta di farsi intervistare.

La Fed tiene i tassi bassi per favorire l’occupazione, ma così facendo fa salire il valore di case e azioni. Il risultato perverso è che nell’anno della pandemia tre milioni di americani, sentendosi abbastanza ricchi, si ritirano dal mercato del lavoro e vanno in pensione in anticipo.

Altri milioni di possibili occupati stanno a casa perché i sussidi di disoccupazione federali e statali sono superiori a quello che potrebbero guadagnare lavorando. Molte madri non vanno a lavorare perché i sindacati degli insegnanti insistono con la didattica a distanza e i figli non possono andare a scuola.

La situazione è così complessa che alcuni economisti (come l’ex Fed Danielle DiMartino Booth) cominciano a paventare il rischio di stagflazione una volta che il boom da riapertura, nel prossimo trimestre, avrà terminato il suo corso. Con un mercato del lavoro diventato più segmentato e più rigido, dicono, la reflazione della Fed produrrà presto più inflazione che crescita.
Altri, come Lacy Hunt (anche lui ex Fed), sono ancora più preoccupati e ipotizzano un ritorno a una condizione di deflazione strutturale. Non pochi, nel mercato, ne traggono l’idea che bisogna riempirsi di governativi trentennali a tasso fisso.

Altri ancora, come Ray Dalio, rimangono convinti che siamo in un nuovo superciclo superaccelerato di reflazione e che in un anno abbiamo ripercorso tutti gli anni Sessanta e ci troviamo ora lanciati verso gli anni Settanta.

Larry Summers, dal canto suo, sostiene che fra poco la Fed non saprà più se diventare restrittiva per arginare l’inflazione e difendere il dollaro o se diventare ancora più espansiva per combattere il rallentamento prossimo venturo o un ribasso di borsa. Quello che è certo, dice, è che i margini di manovra per alzare i tassi, con un debito complessivo cresciuto di 40 punti di Pil in un anno, sono molto ridotti. Abbassare ancora i tassi, d’altra parte, trasformerebbe anche l’America (l’Europa lo è già da tempo) in un nuovo Giappone incartato su se stesso.

Chi è immerso nei mercati finanziari e li vede salire costantemente può essere giustificato nel pensare che siamo in un mondo meraviglioso che non finirà mai. Se si prova però a guardare al di là di questa straordinaria fase di crescita (ed è arrivato il momento di farlo perché il picco è probabilmente già alle nostre spalle) si vede un orizzonte incerto, confuso e non privo di rischi.

Intendiamoci, un esito benigno è perfettamente possibile. Gli squilibri tra domanda e offerta verranno gradualmente colmati, le politiche rimarranno espansive o saranno pronte a ridiventarlo in caso di bisogno e il pragmatismo continuerà a ispirare le scelte di fondo dei policy-maker. Anche in Europa, dove la Cdu sta cercando di vincere le elezioni tedesche di settembre presentandosi con una piattaforma di ritorno alla virtù fiscale in tutta Europa in tempi brevi, le possibilità di compromesso tra una Germania un po’ meno arcigna di come ama apparire e le colombe franco-italiane ci sono ancora.

Quello che vogliamo sottolineare è che, mentre i mercati obbligazionari sono consapevoli dei rischi di coda e ne discutono tutti i giorni, l’azionario rimane affezionato alla narrazione unica della ripresa a oltranza e si limita a privilegiare il valore quando i dati macro sono buoni e la crescita quando sono meno buoni. L’azionario, in pratica, vede un futuro uguale al presente e non si pone ancora la domanda su come sarà sul serio il 2022. È più facile compiacersi per i flussi di liquidità che arrivano in borsa, per i buy-back in piena ripresa e per la scarsa concorrenza di titoli a tasso fisso che rendono molto meno dell’inflazione.

Che fare, quindi?

La prima cosa è vincere la pigrizia mentale e tentare di farsi un’idea di come sarà il mondo una volta terminata questa fase di uscita dall’emergenza. Ci sarà poi da chiedersi se il portafoglio è pronto a un aumento di volatilità, per quanto tempo si considererà transitoria l’inflazione nel caso questa si prolunghi per altri tre o sei mesi, che cosa succederà nel momento inevitabile e vicino in cui gli indici di diffusione sulla produzione inizieranno a scendere. Insomma, è arrivato il momento delle domande, anche di quelle scomode.

Non suggeriamo di vendere e nemmeno di alleggerire, perché le borse hanno ancora un certo spazio per salire. Detto questo, non sembra nemmeno un buon momento per comprare ancora se non titoli particolarmente solidi. Quanto alla composizione, il valore sarà ancora da sovrappesare, ma all’interno del valore andranno privilegiati i settori difensivi. I titoli di crescita, dal canto loro, costituiranno una buona copertura in caso di rallentamento del ciclo economico a partire dal quarto trimestre. Parliamo naturalmente di crescita solida e a prezzo ragionevole, non certo di quella speculativa.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos

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