Dws: E’ ora di puntare sulla Blue Economy

Sembrerebbe un pesce piccolo. Nel 2017, le Seychelles hanno dato il tocco finale a un programma di conservazione marina soprannominato “riduzione del debito per i delfini.”  Subito dopo, la nazione arcipelago “ha lanciato le prime obbligazioni sovrane blu (blue bond) del mondo: uno strumento finanziario pionieristico destinato a supportare progetti sostenibili di pesca e conservazione marina” sotto l’orgogliosa egida della Banca mondiale.  Le somme coinvolte? Meno di 40 milioni di dollari per entrambe le iniziative combinate. Questo evidenzia tuttavia una delle possibilità di affrontare questi progetti, così come alcune delle difficoltà ad essi connesse. Gli oceani sono essenziali per mantenere il pianeta vivibile: in effetti, è curioso che lo chiamiamo “pianeta terra”, invece che “pianeta oceano”.  Conservare gli oceani, i mari e le risorse marine, utilizzandoli con maggiore attenzione per uno sviluppo sostenibile, costituirebbe però un grande cambiamento.

“Anche se gli oceani del mondo sono vitali per il nostro pianeta, li maltrattiamo senza pietà con il riscaldamento globale, il sovra-sfruttamento, la plastica e l’inquinamento idrico. Se continuiamo ad agire in questo modo, quasi il 50% di tutti gli esseri viventi negli oceani potrebbe scomparire entro il 2100”, avverte Paul Buchwitz (nella  foto), gestore di portafogli di DWS con focus a lungo termine sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (SDG). Perché è così difficile realizzare uno sviluppo sostenibile adeguato quando si tratta di pesca e oceani più in generale? Un problema evidente è ben illustrato e documentato da gran parte delle politiche mondiali della pesca. In passato, le strategie e gli organismi regionali riguardanti la pesca sono stati influenzati da vari gruppi di interesse. Troppo spesso, secondo l’Economist, “l’allevamento ittico è gestito degli squali”. Una tendenza potenzialmente incoraggiante oggi è la crescita della domanda di mercato per prodotti ittici etichettati in modo sostenibile da parte dei consumatori e di alcune società di beni di consumo e di pesca. Nel 2019/2020, il 17,4% di tutto il pescato marino selvatico è stato certificato dall’organizzazione internazionale no profit MSC (Marine Stewardship Council): in totale, sugli scaffali di tutto il mondo erano presenti 18.735 prodotti diversi con etichetta MSC.

L’esempio delle Seychelles porta alla luce un altro spunto di riflessione. Le nuove proposte funzionano solo grazie alla vasta zona economica esclusiva dell’arcipelago. In base al diritto internazionale, vengono conferiti agli Stati sovrani diritti speciali sull’uso e sulla regolamentazione delle risorse marine su una distanza di 200 miglia nautiche (370 km) dalla linea costiera, cioè uno spazio molto più ampio rispetto alle acque territoriali che terminano a 12 miglia nautiche (22 km). Laddove tali zone si sovrappongono, spetta agli Stati lavorare insieme e la situazione delle Seychelles, dove c’è un solo Stato coinvolto, per non dire fortemente incentivato a causa dell’importanza economica del settore turistico, è piuttosto insolita. Oltre le 200 miglia nautiche dagli stati costieri, si pone un altro problema nella sua forma più difficile da affrontare: ciò che gli economisti definiscono la tragedia dei beni comuni. I mari aperti appartengono a tutti e quindi nessuno si sente responsabile della loro manutenzione per il futuro, per non parlare delle generazioni future.

Come ha scritto Garrett Hardin, l’ecologo americano, nell’articolo del 1968 che ha coniato il termine: “le nazioni marittime rispondono ancora automaticamente al motto della libertà dei mari”. Professando di credere nelle risorse inesauribili degli oceani, portano pesci e balene, specie dopo specie, sempre più vicino all’estinzione”. Il punto chiave di Hardin era che lo sfruttamento eccessivo di una risorsa comune non è solo un problema tecnico, ma soprattutto un problema di incentivi errati. Ad esempio, uno strumento che funziona abbastanza bene per evitare il sovra-sfruttamento della pesca è la definizione di permessi o di quote di pesca commerciabili. Tali approcci presuppongono, tuttavia, che esista già un sistema di governance, con uno o pochi Stati in grado di regolarne e monitorarne il funzionamento. Gli schemi nazionali o anche regionali sono di aiuto limitato per alleviare altre due espressioni della tragedia dei beni comuni: l’inquinamento in generale e l’acidificazione degli oceani, come conseguenza delle emissioni di biossido di carbonio (CO2). Circa il 30% della CO2 prodotta dall’uomo viene assorbita dagli oceani: questo modifica fondamentalmente la chimica delle acque marine e può destabilizzare ecosistemi ecologicamente importanti come le barriere coralline. Per i paesi come le Seychelles, che sono fortemente esposti ai cambiamenti climatici a causa dell’aumento del livello del mare, l’acidificazione fornisce un motivo supplementare forte per spingere verso i cambiamenti globali.

Ma le Seychelles hanno pochi mezzi per farlo in modo indipendente. Dai tempi di Hardin, è stato fatto molto lavoro su come evitare la tragedia dei beni comuni, in particolare da Elinor Ostrom, vincitrice del premio Nobel per l’economia del 2009. Sorprendentemente, Ostrom ha adottato come approccio generale lo studio di come la disposizione delle risorse funziona nella pratica, per capire perché potrebbero funzionare in teoria. In generale, le sue raccomandazioni implicano la definizione di chi ha – e chi non ha – il diritto di utilizzare un pool di risorse comune e la disposizione di meccanismi trasparenti per risolvere i conflitti. Ciò significa, in generale, dare a tutti coloro che hanno un ruolo nel sistema di governance la possibilità di farlo funzionare. La creazione di consenso per un sistema di questo tipo richiede tempo, ma potrebbe raggiungere un punto di svolta. Nel caso del cambiamento climatico – probabilmente la più grande tragedia dei beni comuni che il mondo abbia mai visto – il punto di svolta potrebbe essere vicino, se non è già raggiunto. Ciò ha contribuito a stimolare l’interesse generale per lo sviluppo sostenibile e potrebbe anche aiutare ad affrontare alcuni dei vecchi problemi che da tempo assillano gli oceani. “Notiamo sempre più che il focus della politica e degli investitori si sta lentamente muovendo verso la tutela degli ecosistemi marini”, osserva Buchwitz.

Il trasporto marittimo, ad esempio, svolge un ruolo enorme nelle emissioni globali di CO2, che dovranno scendere drasticamente per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo sul Clima di Parigi. Le transizioni precedenti, come il passaggio dalle imbarcazioni a vela alle navi a vapore nel XIX secolo, suggeriscono una tempistica piuttosto lunga per la maturazione delle nuove tecnologie. Riveste poi un ruolo importante la finanza, sia come capitale di investimento che come servizi assicurativi per favorire l’innovazione. I prodotti ittici, e in particolare i sistemi di ricircolo dell’acquacoltura, sono un altro settore in cui vi è molta innovazione, non da ultimo in metodi di alimentazione sostenibili (come insetti, alghe e batteri). L’acquacoltura terrestre rappresenta già una quota considerevole e crescente delle risorse ittiche del mondo, ma saranno necessari ulteriori progressi per renderla sostenibile.

Anche in altri settori, la transizione tra la promozione dello sviluppo sostenibile sulla terra e in mare è fluida. Le sostanze plastiche biodegradabili, ad esempio, sarebbero di grande aiuto nella riduzione dell’inquinamento per entrambi gli ecosistemi. Nel corso degli ultimi dieci anni circa, la tendenza all’offshore eolico ha fatto grandi passi avanti nel promuovere la produzione di energia rinnovabile e sono allo studio approcci all’avanguardia per generare elettricità da correnti e maree. Chiaramente, non mancano le potenziali opportunità di business e le sfide che le aziende innovative stanno cercando di affrontare. A nostro avviso, la finanza blu offre attualmente alcune delle opportunità di maggior impatto sia in termini finanziari che ambientali. I modelli delle Seychelles illustrano bene alcune delle ragioni. Con le sue 115 minuscole isole di granito e corallo, le Seychelles coprono un’area di soli 455 km², più o meno le dimensioni della città di Vienna.

 

L’arcipelago si estende in una zona economica esclusiva di circa 1,4 milioni di km2 dell’Oceano Indiano. In cambio di minori interessi sul suo debito nel quadro del primo regime, le Seychelles si sono impegnate a dedicare circa 400 000 km² a riserva marittima – uno spazio più ampio della zona di terra occupata dalla Germania o dal Giappone. In circa la metà delle nuove aree marine protette, la pesca e l’estrazione mineraria saranno vietate del tutto; nell’altra metà saranno consentite attività economiche limitate. (12) Arrivare a questo punto non è stato facile. La gestione dei dettagli finanziari ha richiesto diversi anni. In parte, ciò è dovuto al fatto che le “obbligazioni blu” che le Seychelles hanno cercato per finanziare una migliore gestione marina hanno l’obiettivo di affrontare i casi di fallimento del mercato: quando i potenziali benefici sono a lungo termine e incerti mentre i costi sono immediati.  Strutturare tali transazioni in modo che abbiano senso per i detentori di debito privato non è semplice. Per non parlare delle difficoltà amministrative che affliggono le agenzie governative nel sorvegliare tali vaste aree di protezione, nonché nell’educare e compensare le comunità locali, se necessario. Inoltre, sotto molti aspetti, le Seychelles sono peculiari in un modo che facilita la transizione.

 

Da un lato, gran parte dell’economia del paese oggi dipende dal turismo, così come, direttamente e indirettamente, molti dei posti di lavoro dei suoi quasi 100.000 abitanti. Il turismo è stata la principale fonte di crescita economica negli ultimi 40 anni circa e ha portato il paese fuori da una povertà quasi a livello di sussistenza. Mantenere intatti i suoi atolli corallini e gli ecosistemi è quindi una priorità economica immediata facile da accettare. Ciò contrasta con la situazione in altre parti del mondo. Negli ultimi anni, l’UE ha dato grande impulso a quella che definisce la sua “Strategia di crescita blu” e ha pubblicato relazioni dettagliate, e molto utili, chiamate “Economia blu dell’UE”. Come per le pionieristiche “obbligazioni blu” delle Seychelles, il blu in questo contesto si riferisce agli oceani del mondo, piuttosto che allo sfondo della bandiera europea. Bene, meglio tardi che mai. Per gran parte della sua storia, la politica comune europea in merito alla pesca ha avuto difficoltà a creare un settore ittico sano e sostenibile, anche all’interno delle sue acque territoriali, con conseguenti tassi di sfruttamento eccessivi, pochi investimenti, scarsa pesca ed ecosistemi gravemente danneggiati. Rispetto all’euforia politica espressa da Bruxelles, i recenti progressi sono stati insignificanti (con poche eccezioni notevoli, soprattutto negli stati membri più piccoli come l’Estonia). In un certo senso, almeno, l’interesse tardivo dell’Unione Europea per la “Blue Economy” è sicuramente ben accolto, come quello di altri organismi internazionali. Ad esempio, una nuova concezione è stata sviluppata dal gruppo High Level Panel for a Sustainable Ocean Economy, iniziativa per un’economia oceanica sostenibile di 14 capi di stato, sostenuta da un ampio settore della ricerca e da esperti. La visione del gruppo abbandona la falsa scelta tra sviluppo economico e tutela ambientale, mirando a integrare le “tre P” di protezione efficace, produzione sostenibile e prosperità equa.

“Questo approccio non parla solo di lasciare in pace i mari ma anche di gestire in modo proattivo le attività umane per utilizzare saggiamente l’oceano invece di sfruttarlo, per contribuire a costruire un futuro molto più ricco in cui le persone godono di maggior benessere e migliore salute, la natura prospera e le risorse sono distribuite in modo più equo”. Il gruppo Ocean Panel ha formulato raccomandazioni per il raggiungimento di cinque trasformazioni chiave per gli oceani: ricchezza, salute, uguaglianza, conoscenza e finanza. Queste azioni potrebbero, entro il 2050, portare ad aumentare di 40 volte le energie rinnovabili oceaniche, ridurre del 20% le emissioni, prodotti ittici 6 volte più sostenibili, 15.500 miliardi di USD in benefici netti derivanti dagli investimenti, 12 milioni di nuovi posti di lavoro e habitat e biodiversità ripristinati.

Tali view, a prescindere dal loro successo possono certamente contribuire a far aumentare l’interesse del settore privato. La tutela degli ecosistemi marini, promuovendo lo sviluppo sostenibile, richiederà indubbiamente allo stesso tempo migliori meccanismi di governance. Ma soprattutto in considerazione dei lunghi tempi di maturazione delle nuove tecnologie, anche l’innovazione privata e il capitale possono svolgere un ruolo utile. “Dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (SDG), gli oceani finora hanno attratto le minori quantità di capitale privato”, spiega Buchwitz. A nostro avviso, la mancanza comparativa di “investimento blu”, fino ad ora, potrebbe creare possibilità molto interessanti per i Gestori disposti a concentrare il proprio capitale e la propria influenza sui cambiamenti positivi da intraprendere.

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