Investimenti: tutti gli equivoci sull’inflazione

L’inflazione è sempre un terreno di scontro tra interessi contrapposti, anche quando non è provocata a freddo da politiche fiscali e monetarie che la cercano esplicitamente o che la accettano come effetto collaterale di spese straordinarie, tipicamente per finanziare guerre.

Anche quando la causa prima dell’inflazione è un evento naturale che riduce improvvisamente l’offerta (un’alluvione, un terremoto, un’epidemia), si apre subito la discussione su chi debba pagarne il costo, se debbano cioè essere i produttori o i consumatori o entrambi.

L’inflazione (ma lo stesso si può dire della deflazione, naturalmente) mette gli uni contro gli altri i creditori e i debitori, i produttori e i consumatori, i governi e i cittadini, i price maker e i price taker, i salariati e i detentori di beni reali. L’inflazione semina zizzania nei delicati equilibri delle società ed è comprensibile che negli ultimi due decenni si sia trovato un compromesso nell’obiettivo di un’inflazione moderata, che da una parte permette di non cristallizzare troppo i rapporti di forza esistenti tra i soggetti sociali mentre dall’altra garantisce un minimo di stabilità.
È però altrettanto comprensibile che, nel momento in cui l’inflazione sembra rompere questi argini costruiti con fatica, si riaprano i conflitti d’interesse.

Dalla psicologia dell’evoluzione sappiamo che gli esseri umani non hanno sviluppato la logica e la teoria dell’argomentazione per puro amore della conoscenza, ma per prevalere sugli avversari usando la parola invece della clava. Ecco allora che la battaglia degli interessi contrapposti genera sull’inflazione narrazioni a volte tendenziose che giocano talvolta su equivoci propagandisticamente efficaci.

Il primo equivoco, oggi molto diffuso, è quello tra inflazione come derivata prima dei prezzi e l’inflazione come derivata seconda. La narrazione oggi prevalente dell’inflazione transitoria, dell’onda anomala cui seguirà il ritorno alla normalità, è probabilmente corretta tecnicamente ma è usata in modo farisaico quando diventa un messaggio per rassicurare il pubblico inquieto.

Pensiamo alla differenza tra il dire da una parte che, passata una malattia, si tornerà in perfetta salute e il dire dall’altra che, amputata la parte malata, si tornerà in perfetta salute. Quando il pubblico sente parlare di inflazione transitoria l’idea che gli si forma in testa è che il prezzo passato in un anno da 100 a 105 tornerà presto a 100. Tutto il battage sul prezzo del legname, passato in un anno da 400 a 1800 dollari e oggi sceso a 700, fa sottilmente credere che siamo di fronte alla solita ciclicità delle materie prime, che salgono e scendono da quando esistono e che sono però, nel lungo termine, molto stabili in termini reali. Niente di cui preoccuparsi.

Quando il policy maker parla di inflazione transitoria, intende in realtà la derivata seconda, per cui il prezzo passato in un anno da 100 a 105 rimarrà a 105 anche l’anno successivo (o, per meglio dire, andrà a 107 calcolando l’inflazione prestabilita del 2%).

Quando il pubblico americano alza le sue stime d’inflazione (mentre il mercato torna ad abbassarle) è perché sente sulla sua pelle che l’amputazione del 5% che ha già subìto sul suo potere d’acquisto sarà permanente. I prezzi che lo riguardano, pensa, non torneranno mai giù. Da qui la necessità di risparmiare di più, come è evidente dalle statistiche.

Una seconda narrazione ambigua è quella dell’inflazione dovuta esclusivamente a pochi elementi anomali, come nel caso solo apparentemente curioso delle auto usate che continuano a crescere di prezzo falsando il dato complessivo dell’inflazione. Tolti il petrolio, i vari prezzi dell’energia e gli alimentari perché volatili, tolti i biglietti aerei, il cinema e gli alberghi perché gonfiati dalla riapertura e tolte le macchine usate tutto è regolare.

Si viene così configurando una nuova antropologia dei bisogni

Basta digiunare, stare al buio, non fare il bucato (c’è pressione anche sui prezzi degli elettrodomestici) e restare immobili o muoversi in bicicletta (più leggeri per via del digiuno) e non si sentirà nessun effetto di questa onda transitoria di inflazione. Bisognerà però abituarsi presto a dormire in tenda, perché i pigri indicatori statistici si preparano a catturare finalmente l’aumento del costo operativo delle case (affitto e bollette). Aneta Markowska calcola però che, anche togliendo tutte le fastidiose anomalie allo 0.9 di inflazione di giugno, rimane pur sempre uno 0.5. Provate ad annualizzarlo e viene fuori il 6.

Una terza narrazione rassicurante ci dice che non c’è da preoccuparsi perché agli aumenti circoscritti dei prezzi non corrisponde un’inflazione salariale. È quasi vero per il momento e sarà forse vero ancora per qualche anno ma un minimo di prudenza è comunque consigliabile. Dopo tutto uno dei principali obiettivi dell’amministrazione Biden è raggiungere rapidamente il pieno impiego e andare anche oltre, in modo da aumentare il potere contrattuale del lavoro.

In Europa siamo al momento al riparo da questi problemi. Dopo le elezioni tedesche di settembre capiremo come saranno i rapporti di forza tra i reflazionisti e i fautori del ritorno ai conti in ordine. Già adesso vediamo però dei segnali da considerare. La Commissione europea annuncia che proteggerà i produttori colpiti dall’aumento del costo dei diritti d’inquinamento con una carbon tax sulle importazioni da Cina, India e Brasile. I Paesi colpiti, verosimilmente, attueranno ritorsioni e ne deriverà una spinta verso l’alto di molti prezzi di prodotti di base.

In sintesi, mentre alcuni dei prezzi più veloci a muoversi (come il petrolio) sono già oggi in fase di stabilizzazione (ma non torneranno certo indietro) altri prezzi più lenti a muoversi si preparano a uscire dal letargo. L’esito finale della vicenda dell’inflazione verrà deciso comunque dalla produttività del lavoro. La pressione a sindacalizzare i fattorini che ci consegnano i pacchi da una parte, la sperimentazione di Amazon di droni per le consegne dall’altra. È su questo terreno che si potranno contenere gli effetti inflazionistici delle politiche di stimolo della domanda che continueremo a vedere nei prossimi anni.

Venendo agli investimenti, anche prendendo per buona l’idea della Fed che l’inflazione fra un anno sarà tornata poco sotto il 2% (per poi risalire negli anni successivi), l’1.30% offerto dal Treasury decennale resta poco allettante a meno che non si immagini una recessione nel medio termine. Certo, con la crescita destinata a farsi più irregolare e a rallentare e con il tapering in arrivo all’inizio dell’anno prossimo il quadro è destinato a complicarsi un po’, ma non certo a rovesciarsi, quanto meno di qui a fine anno. Rimaniamo quindi investiti, prendendo il rischio di una possibile volatilità estiva.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos

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