Investimenti: cautela sui mercati emergenti

Il 2021 doveva essere, secondo molti osservatori, l’anno dei mercati emergenti, attesi in crescita sulla scia dalle riaperture e con premi al rischio interessanti rispetto a quelli compressi dei mercati occidentali. Invece, da inizio anno, gli indici bond corporate emerging market hanno registrato una performance quasi nulla o leggermente negativa a livello globale sotto performando, per esempio, il mercato high-yield europeo o americano. Ecco di seguito la view di Plenisfer.

La performance delle valute contro il dollaro americano è stata addirittura negativa di qualche punto percentuale, l’opposto di ciò che gli analisti si attendevano:

A cosa si deve questa sottoperformance? L’assenza, da un lato, di campagne vaccinali efficaci – come evidenziato, ad esempio, dall’aumento dei casi recentemente registrato in Russia, nei Paesi asiatici e in America latina -, dall’altro di politiche di sostegno alla crescita con stimoli ai consumi e alla produzione, hanno determinato un differenziale di crescita del GDP tra mercati sviluppati ed emergenti, escludendo la Cina, di quasi 8 punti percentuali nel secondo trimestre.

A una crescita economica minore delle attese, si somma in queste aree il rischio inflazione che oggi in media, se si esclude la Cina, è pari al 3,5%: cresciuta a basso ritmo da inizio anno su base storica rischia un’accelerazione soprattutto per effetto dell’incremento dei prezzi delle commodities energetiche che ha già inciso sui prezzi determinandone un aumento dell’1,5%, il più alto dell’ultimo decennio (+1,5%).

Le banche centrali si trovano quindi oggi a dover affrontare un duplice problema: da un lato continuare ad attrarre capitali stranieri, dall’altro, tenere sotto controllo l’inflazione che, se iniziasse a correre, genererebbe impatti critici sia sul fronte economico che sociale.

La prospettiva di un ulteriore rafforzamento delle spinte inflattive e la necessità di proteggere il flusso di investimenti stranieri, ha già forzato la mano di qualche banchiere centrale con un aumento dei tassi di interesse di riferimento: mentre in Cina la People’s Bank of China ha da tempo intrapreso una normalizzazione delle sue politiche, Brasile, Russia, Messico sono tra i Paesi che hanno di recente invertito la rotta ed aumentato i tassi. La banca centrale brasiliana, per esempio, ha aumentato il tasso interbancario di riferimento dal 2% di marzo al 4.25% di luglio grazie ad una crescita più forte delle attese (intorno al 3% reale attesa per il 2021) con inflazione però all’8,35% in giugno per un aumento dei prezzi energetici e mai così alta negli ultimi 5 anni.

Banxico, la banca centrale messicana, è stata l’ultima a dover seguire queste orme aumentando i tassi nell’ultima riunione di luglio dal 4% al 4,25% a fronte però di un GDP che ha appena ripreso a salire dai minimi della pandemia, attestandosi all’1,75% su base annuale nel primo trimestre del 2021 e con una stima di crescita al 7% a fine anno in termini reali che tuttavia non compensa pienamente il calo registrato nel 2020 (superiore all’8%).

Da notare, infine, che i 115 tagli di tassi di interesse che le banche centrali emergenti avevano apportato nel 2020 sono al momento ridotti a solo 3 tagli finora nel 2021.

Riteniamo che quanto sta accadendo in Messico e Brasile potrebbe replicarsi in altri mercati emergenti e ci aspettiamo che questa tendenza continui nella seconda metà del 2021 con il processo di normalizzazione che potrebbe essere intrapreso da altri Paesi con output gap positivo (crescita del GDP reale superiore a quella potenziale di lungo termine) e importatori netti di inflazione per aumento dei prezzi energetici. Per esempio, i Paesi dell’est Europa, che hanno potuto supportare l’economia con tassi reali negativi, saranno i primi a normalizzare le politiche aumentando i tassi appena la stabilità finanziaria sarà riassicurata dall’efficiente distribuzione dei vaccini e quindi con economie che torneranno ad operare al loro potenziale di lungo termine.

In Plenisfer ci aspettiamo, infine, che i tassi dei Paesi Emergenti possano salire anche alla luce della correlazione con quelli statunitensi. Negli USA i prezzi al consumo di giugno sono saliti dello 0,9% rispetto allo scorso maggio e del 5,4% rispetto a giugno 2020 – registrando la crescita maggiore dell’inflazione dal 2008 ad oggi – e di fronte a un simile balzo, la FED continua a mantenere la sua linea leggendo nei recenti dati una crescita disomogenea, un mercato del lavoro ancora non ritornato ai livelli pre-pandemia e di una inflazione guidata da fattori transitori. Storicamente, la prospettiva di incremento dei tassi americani ha coinciso con un aumento di quelli dei mercati emergenti, necessario per continuare ad attrarre investitori che altrimenti preferirebbero l’alternativa domestica ai loro investimenti, in quanto più sicura. Il rischio che quindi la Fed debba attivarsi prima di quanto ci si aspetti è sicuramente un fattore che pesa sugli investitori nei mercati emergenti.

In conclusione, mentre le banche centrali occidentali possono permettersi di rimandare la decisione sull’avvio del tapering e lasciano intendere che questo verrà programmato con largo anticipo, molti banchieri nei Paesi emergenti si sono già mossi verso una politica monetaria restrittiva spinti da inflazione che ha ripreso a correre prima o troppo velocemente rispetto alla loro economia domestica.

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