Investimenti, come muoversi tra i pericoli di stagflazione e recessione

Nel supermercato delle previsioni nella gran parte del tempo c’è un prodotto solo sugli scaffali. Goldilocks, lo scenario tiepido fatto di crescita moderata e di bassa inflazione, ha quasi monopolizzato prima le previsioni e poi la realtà durante il decennio scorso. La Grande Moderazione, una versione precedente di Goldilocks, aveva dominato il primo decennio del nuovo secolo. Ecco di seguito la view di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos.

La dispersione delle previsioni è circoscritta di solito alle fasi di inversione di un ciclo. Dal 2009 al 2012, sugli scaffali, oltre a Goldilocks, si poteva trovare anche Inflazione!, una teoria, quasi un culto, che sosteneva che il Quantitative easing avrebbe provocato un rialzo consistente dei prezzi. C’erano poi due prodotti apparentemente simili, Ricaduta e Millenovecentotrentasette.

Il primo, fatto soprattutto di sensazioni di pancia, sosteneva che la ripresa del 2009 era effimera e che già nel 2010 si sarebbe ripiombati in recessione. Il secondo, molto sofisticato, fu lanciato a metà decennio da Ray Dalio. Partendo dall’esperienza degli anni Trenta, con la ripresa del New Deal e la recessione improvvisa e profonda del 1937-38, si sosteneva che i cicli di ripresa dopo crisi devastanti sono forti in apparenza ma strutturalmente fragili. I policy maker tendono a sottovalutare questa fragilità, diceva Dalio, e normalizzano la politica fiscale e monetaria troppo presto, con il risultato di provocare la riapertura delle ferite mentali ancora fresche e l’attesa, che si autorealizza, del ritorno di una crisi severa.

Sappiamo come andò. L’inflazione non ci fu per via del rallentamento della velocità di circolazione della moneta e la ricaduta non ci fu perché la Fed fu straordinariamente accomodante molto più a lungo che nei cicli precedenti.
Oggi il supermercato delle previsioni ha di nuovo un assortimento molto ricco. Non solo c’è la mancanza di certezze tipica di ogni momento di svolta ciclica, ma c’è anche la sensazione di essere entrati in un nuovo paradigma del quale ancora non abbiamo preso le misure.

Le cause della dispersione delle previsioni sono tante, ma per i mercati è decisivo il vivace dibattito sui bond. Che cosa significano i rendimenti obbligazionari così bassi? Che senso hanno rendimenti reali così profondamente negativi da dovere risalire al 1946-47 e al 1972-74 per trovare dei precedenti?

Ecco allora comparire tre tesi-prodotto, Transitoria, Recessione e Eden. La prima non richiede grandi sforzi di fantasia e sostiene semplicemente che i bond sono su questi livelli perché considerano temporanea l’inflazione e guardano avanti.

La seconda, Recessione, è più elaborata e ci dice che i mercati obbligazionari vedono dietro l’angolo, concluso il rimbalzo ciclico post-Covid e terminate o ridimensionate le spinte fiscali e monetarie, una fase di stagnazione. Il Financial Times ha lanciato anche l’idea di una recessione l’anno prossimo. Si tratterebbe di una recessione da scorte, sul modello di quelle degli anni Cinquanta e Sessanta. Oggi le scorte sono basse, per la domanda forte e per le note strozzature dell’offerta. Fra qualche mese l’offerta si normalizzerà e le imprese ricostituiranno le scorte, eccedendo come fanno sempre. A un certo punto ci si ritroverà con la domanda che scende (per effetto dell’esaurirsi dei risparmi accumulati durante la pandemia) e troppe scorte. La produzione dovrà essere aggiustata verso il basso e ci sarà quindi recessione.

La terza tesi, Eden, sostiene che i tassi bassi sono semplicemente l’effetto di fenomeni strutturali (l’eccesso di risparmio rispetto alla domanda di capitali per investimenti produttivi) o di repressione finanziaria da parte delle banche centrali. In entrambi i casi i rendimenti bassi non segnalano nulla di negativo e sono anzi il presupposto per una ripresa duratura dell’economia e per una continuazione del rialzo azionario.

Su un terreno diverso si trova Stagflazione, una teoria che considera strutturali le pressioni inflazionistiche e che le vede accompagnarsi a rischi di stagnazione già dall’anno prossimo. Sulla possibile persistenza dell’inflazione e sul suo mettere radici (in America, non in Europa) un punto importante è l’accelerazione dell’inflazione salariale. Jason Furman nota che le retribuzioni, misurate correttamente, stanno crescendo più velocemente che nel decennio scorso anche se siamo ancora teoricamente lontani dalla piena occupazione. L’amministrazione Biden, dal canto suo, cerca di allontanare le critiche per la perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni sostenendo che queste devono crescere e che devono essere i posti di lavoro a competere per trovare forza-lavoro e non il contrario. Quanto alle imprese, al momento non hanno difficoltà, nella maggior parte dei casi, a scaricare sui prodotti finali gli aumenti. Il primo giro di inflazione è quindi già praticamente completato. Resta da vedere se sia partita la rincorsa tra prezzi e salari e se la spirale avrà la forza di durare nel tempo.

Una sintesi tra queste posizioni è possibile e proviamo a formularla. La ripresa rallenterà e diventerà temporaneamente modesta nel secondo semestre dell’anno prossimo. Una recessione da scorte è teoricamente possibile ma, nel caso, sarebbe temporanea e benigna. La sua bassa probabilità è dovuta al fatto che le strozzature dell’offerta non si risolveranno tutte nello stesso momento, per cui la ricostituzione delle scorte e la formazione di eccessi sarà distribuita nel tempo.

Lo scenario strategico può essere benissimo quello di una Goldilocks Calda (non bollente) con più inflazione ma anche più crescita rispetto al decennio scorso. In presenza di tassi di policy che continueranno a essere repressi, la Goldilocks Calda continuerà a essere tendenzialmente positiva per le borse e non provocherà troppi danni ai bond. L’inflazione alzerà per tutti (azionisti e obbligazionisti) l’asticella da superare per ottenere un ritorno reale positivo. L’aumento della pressione fiscale l’alzerà ulteriormente. Alla fine il quadro resterà comunque benigno.

L’incognita sarà la durata di questo scenario, che da metà decennio in avanti vedrà gradualmente deteriorarsi il tradeoff tra inflazione e crescita. Ma c’è tempo.

Intanto le borse faticano a uscire dal trading range stretto nel quale si sono sistemate. L’attività in opzioni è intensa e attira gli indici verso il centro del range. Alcune case (Goldman Sachs, Citi, Morgan Stanley) ritengono sempre più vicino il momento per una correzione del 10 per cento. Vedremo. Quello che conta è che ci sono i presupposti per un finale d’anno su livelli più alti degli attuali.

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