Investimenti, tassi zero nonostante l’inflazione: come muoversi

In molti paesi i tassi d’inflazione hanno raggiunto livelli che non si vedevano da anni. Negli Stati Uniti, a giugno i prezzi erano aumentati del 5% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, l’aumento maggiore dal 2008. Sempre nel mese di giugno, il dato sull’inflazione “core”, che non comprende le componenti più volatili come ad esempio i prezzi dell’energia, si è persino spinto al livello più elevato dal lontano 1992.

Anche in Europa si è assistito a un incremento dei prezzi. In Germania, il presidente della Bundesbank Weidmann ritiene plausibile un tasso di ben 4 punti percentuali nel secondo semestre 2021. L’ultima volta in cui l’inflazione dei prezzi al consumo era intorno al 4% è stato nel giugno del 1992. Ma quando i prezzi salgono, non dovrebbero seguirli anche i tassi d’interesse? Facciamo il punto della situazione e cerchiamo di capire, realisticamente, quanto sia probabile un aumento a breve dei tassi di riferimento nelle due aree valutarie.

L’obiettivo principale dell’autorità monetaria dell’Eurozona è garantire la stabilità dei prezzi. Il target d’inflazione simmetrico è fissato al 2%. In pratica quindi per un eventuale aumento dei tassi d’interesse, le prospettive di inflazione nel periodo della proiezione (oggi fino al 2023 incluso) dovrebbero avvicinarsi con decisione al livello target e ciò dovrebbe al contempo riflettersi sistematicamente nella dinamica dell’inflazione sottostante. L’attuale tasso d’inflazione nell’Eurozona, pari all’1,9% annuo al mese di giugno 2021, deriva principalmente da effetti di base e rincari dell’energia. Al netto dell’energia si avrebbe un modesto tasso dello 0,8%: ben lontano dal raggiungere stabilmente il fatidico 2%, ossia il livello dell’inflazione “core” fissato per poter contemplare un eventuale aumento del tasso d’interesse di riferimento. Altrettanto poco promettenti sono le prospettive di inflazione: secondo le ultime proiezioni dello staff della BCE, le previsioni di inflazione core per il 2023 si attestano all’1,4%. Per ora l’inversione dei tassi si vede solo col binocolo.

Negli Stati Uniti è tornata l’inflazione! Eccome: nel mese di giugno 2021 i prezzi al consumo si attestavano a +5,4% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Ma è un dato sufficiente per aumentare i tassi di riferimento? Nell’ambito del suo duplice mandato, la Banca centrale statunitense ha due grandi obiettivi da soddisfare prima di poter procedere a un giro di vite: il primo è il cosiddetto “temporary price-level targeting”, un meccanismo con cui si dovrebbe raggiungere un tasso d’inflazione medio del 2% nell’arco di un periodo di alcuni anni non precisamente definito. Poiché ultimamente sia l’inflazione complessiva che il dato “core” si sono attestati ben oltre la soglia del 2%, si presume che l’inflazione anomala registrata nell’ultimo anno sia destinata a rientrare nei prossimi trimestri. Inoltre, le prospettive di inflazione appaiono positive non solo per effetti di base e forti rincari dell’energia. I membri del Federal Open Market Committee, ossia i responsabili delle decisioni di politica monetaria negli USA, prevedono un tasso di inflazione “core” intorno al target del 2% nel 2022 e 2023. Per cui si può ragionevolmente ritenere di poter raggiungere il target d’inflazione nel corso del prossimo anno.

Più problematico appare, almeno per ora, il secondo obiettivo della Banca centrale statunitense: la piena occupazione. Vi sono infatti alcune incognite riguardo al mercato del lavoro USA. Nel mese di giugno 2021 il numero di lavoratori attivi negli Stati Uniti era circa sette milioni al di sotto del livello pre-crisi. Ma come hanno rilevato di recente gli esponenti della banca centrale, non basta recuperare i posti di lavoro perduti: per riflettere la crescita secolare dell’occupazione, devono entrare nel mercato del lavoro almeno altri due o tre milioni di persone. Solo così si avranno livelli tali da ritenere realizzato l’obiettivo della piena occupazione. Ma se da un lato si può prevedere la creazione di numerosi posti di lavoro in settori come gastronomia e servizi di alloggio grazie alla rapida ripresa economica, dall’altro resta da capire quando si realizzerà effettivamente l’obiettivo. Secondo stime attuali, comunque molto incerte, la Banca centrale statunitense potrebbe decidere di operare un primo aumento dei tassi d’interesse a cavallo tra il 2022 e il 2023. A nostro avviso, difficilmente si può prevedere un significativo incremento dei tassi in un’ottica di breve termine.

Per il momento i tassi rimangono bassi anche nell’Europa del nord. All’inizio di luglio la Riksbank, la Banca centrale della Svezia, ha pubblicato il suo rapporto sulla politica monetaria sintetizzando le attuali visioni delle banche centrali e i loro conseguenti operati: secondo la stragrande maggioranza, ridurre prematuramente gli stimoli di politica monetaria comporterebbe rischi maggiori che non mantenere troppo a lungo una linea ultra-espansiva. Non sorprende quindi che la stessa Riksbank non abbia in programma di aumentare il tasso di riferimento nell’orizzonte temporale considerato, ossia fino al terzo trimestre 2024. In caso di interventi prematuri sui tassi, il rapporto fra rischi e opportunità è semplicemente troppo sfavorevole. Di conseguenza, nel migliore dei casi la rinuncia agli attuali livelli dei tassi d’interesse sarà graduale, proprio come negli USA.

Situazione analoga anche in Gran Bretagna, Giappone e in molti altri paesi. Alla luce di tutti questi esempi, per il momento i tassi resteranno bassi un po’ ovunque, malgrado l’aumento dei tassi d’inflazione. Il che comporta conseguenze per gli investitori nel reddito fisso: se non trovano altre fonti di rendimento, nei prossimi anni i loro capitali rischiano di subire perdite di valore in termini reali.

A cura di Julian Marx, Research Analyst Multi Asset e parte del team Multi Asset di Flossbach von Storch

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