Mercati, Usa: ecco perchè la disoccupazione può anche non tornare ai livelli pre-pandemici

La riduzione della disoccupazione è uno degli obiettivi della Fed e dell’amministrazione Usa. La politica economica pre-pandemia, come ha avuto modo di precisare la Yellen, aveva portato il tasso di disoccupazione al 3,5%, quindi al di sotto il livello medio del 5% indicato dagli economisti come rappresentativo dell’economia USA, senza che questo generasse spinte inflazionistiche.

I dati del mese scorso indicano che l’obiettivo del 5% è stato raggiunto, ma non ci sono indicazioni che la Fed e l’amministrazione Usa siano intenzionati a raggiungere nuovamente al livello pre-pandemia. Del resto, ci sono alcune differenze di non poco conto tra il 5% di oggi e il 3,5% del 2019: le spinte salariali (nell’ultimo anno le retribuzioni USA calcolate utilizzando la parità del potere d’acquisto sono cresciute del 4,5%), che si fanno sempre più concrete e aprono la strada ad un aumento generalizzato dei prezzi, l’energia il cui prezzo non accenna a diminuire (che ha raggiunto livelli che non si vedevano dal 2008) e quello delle materie prime, sempre più scarse.

In altre parole, la differenza è l’inflazione che appare oggi molto più insidiosa del 2019, perché arriva da tutte le componenti produttive: lavoro, energia e materie prime. E ben presto, potrebbero arrivare anche dal costo del capitale (secondo Powell, la FED sarebbe pronta ad aumentare i tassi nella seconda parte del 2023, una volta finito il tapering).

Le imprese dovranno quindi fare i conti con crescenti costi dei fattori produttivi. Questo genera una crescita dei prezzi di vendita di beni e servizi che a loro volta interagiscono con i costi di produzione di altri beni e servizi, influenzandosi reciprocamene. Il risultato finale è una spirale di crescita di costi e prezzi che si autoalimenta. Difficile che in questo scenario le imprese siano in grado di mantenere i profitti.

C’è ancora tempo per evitare questo scenario?

Certo che si. Ma occorre una manovra a tenaglia, in prima battuta politica (non è un mistero che la Cina abbia fatto incetta di materie prime sostenendone i prezzi e che l’arrivo del petrolio Iraniano sul mercato ridurrebbe l’incremento dei prezzi energetici) che agisca sul lato dell’offerta in modo da consentire una minore spinta inflazionistica da costi. Allo stesso tempo, occorre agire sul lato della domanda. In primis le banche centrali dovrebbero ridurre la qualità di moneta in circolazione (e con l’avvio del tapering questo è stato deciso) e in seconda battuta occorrerebbe cercare di non far aumentare troppo i salari, altrimenti aumenterebbero i consumi.

Anche la politica fiscale può concorrere al controllo dell’inflazione: una diminuzione delle imposte indirette genera una riduzione dei prezzi, perché esse gravano sul prezzo dei beni. Non vale per quelle dirette dove la loro diminuzione aumenta il reddito disponibile e quindi i consumi (in realtà anche il risparmio). Per ridurre l’inflazione occorrerebbe quindi aumentare le imposte dirette (IRPEF, IRES) e diminuire quelle indirette (IVA). Da non sottovalutare che anche la spesa pubblica può concorrere alla diminuzione dei prezzi, attraverso la diminuzione delle spese dello Stato, diminuendo la spesa corrente (interessi passivi o salari) e riducendo la spesa in conto capitale (costruzione di opere pubbliche). Chiaramente tutto questo ci porta però a dover accettare un aumento della disoccupazione.

Le banche centrali ed i governi hanno dato prova negli ultimi due anni di aver agito in modo corretto (anche se non sempre tempestivo). Non ci sono fondati motivi per i quali non dovrebbero continuare a farlo. I mercati ne hanno preso atto.

A cura di Antonio Tognoli, Head of Research di Integrae Sim

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