In particolare, abbiamo Alphabet, che rispetto ad un anno fa ha portato il fatturato a crescere del 38%, il massimo in 14 anni, grazie all’aumento delle inserzioni pubblicitarie che oggi vengono utilizzate ampiamente anche dalle piccole e medie imprese. Oppure abbiamo Microsoft, leader del Cloud Computing, che ha segnato un rialzo dei ricavi del 22%, potendo contare sulla forza della divisione Azure, che al momento detiene una quota di mercato superiore al 20%. Dall’altra parte, invece, le aziende più profittevoli sono anche quelle che possono contare su un’opportuna diversificazione del fatturato su base geografica.
Le aziende dell’S&P 500 che producono più del 50% del proprio fatturato fuori dagli Stati Uniti hanno generato un incremento annuale degli utili del 44% circa contro un +26% ottenuto da quelle vendono i propri beni e servizi prevalentemente negli US. Il settore del lusso, ad esempio, sta beneficiando dai consumi spinti dalla classe media nella regione asiatica e cinese: stando alle ultime trimestrali, la fetta dei ricavi di LVMH generata in Asia risulta superiore a quella degli Stati Uniti (36% vs 25%).
A partire dal quarto trimestre, invece, la dinamica degli utili potrebbe cominciare a vedere una normalizzazione, soprattutto in quei settori dove peserà il caro materie prime, poiché alcune aziende potrebbero non essere in grado di scaricare sul cliente finale l’incremento dei costi operativi. Pertanto, secondo noi i business di qualità risulteranno vincitori in tutti i contesti, anche nei casi in cui i multipli di mercato siano ragionevolmente più alti rispetto alla media.
L’impatto degli aumenti salariali
Il costo del lavoro rappresenta una variabile dell’inflazione poco discussa, ma nel medio termine potrebbe costituire una componente strutturale. Si osservi che dalle riaperture delle attività economiche in alcune aree è emersa addirittura una carenza di lavoratori. Ad esempio negli USA la forza lavoro si attesta ancora a 4 milioni in meno rispetto al livello pre-pandemico di 165 milioni. Inoltre, un altro fattore che potrebbe essere legato allo shortage riguarda l’immigrazione: nel 2020 i flussi migratori verso i Paesi dell’OCSE sono calati del 30%.
Gli Stati Uniti, da un lato, presentano una tendenza al rialzo dovuta alla necessità di attrarre nuovi lavoratori sia nel settore pubblico che privato. Ad esempio, Il Presidente Biden a inizio anno ha emesso un ordine esecutivo per incrementare il salario minimo degli impiegati federali da $10,95 a $15 per ora ed entro marzo 2022 i nuovi contratti dovranno essere conformemente implementati.
Si consideri che, stando ai dati del 2020, secondo il Federal Salary Council i dipendenti federali sono stati pagati il 23,11% in meno rispetto alle loro controparti del settore privato. In quest’ultimo, invece, il via è stato dato da Amazon, che ha portato il salario minimo da 15 a 18 dollari per attrarre nuovi lavoratori. Nella zona euro, dall’altro lato, gli aumenti non sembrano ancora rappresentare un punto di attenzione, nonostante il livello della disoccupazione si stia allontanando dai picchi pandemici. L’ultima rilevazione di settembre segnalava un tasso del 7,5%, inferiore al massimo di 8,5% registrato nel 2020.
Tuttavia, ciò non toglie che in futuro possano esserci dei cambiamenti: il più grande sindacato tedesco, Ig Metall, quest’anno ha raggiunto un accordo su un aumento del 2,3% fino a ottobre 2022, che coinvolgerebbe 3,9 milioni di lavoratori nel settore della lavorazione dei metalli. Pertanto, noi crediamo che nel 2022 le componenti più transitorie dell’inflazione, come i prezzi delle materie prime, dovrebbero normalizzarsi, ma le variabili più strutturali, come quelle legate all’aumento dei salari (soprattutto nei mercati sviluppati) potrebbero permanere.
Dunque si aprirebbe uno scenario diverso dal periodo pre-Covid: se prima l’attenzione era rivolta al rischio di deflazione, in futuro si potrebbero vedere tassi di inflazione anche moderatamente superiori ai target fissati dalle Banche centrali. Secondo le stime del consensus degli economisti, in particolare, negli USA l’aspettativa di crescita dei prezzi si dovrebbe attestare al 4,3% nel 2021, mentre nel 2022 dovrebbe scendere a circa 3%.