Investimenti: sopportare l’inflazione, ma non per sempre

Correva l’anno 2008 ed era maggio. Si addensavano nel cielo di primavera le nuvole nere della Grande Recessione e della deflazione che questa avrebbe prodotto. Il Bollettino mensile della Bce era però preoccupato per l’inflazione e dedicava alcune pagine all’analisi di quella lontana eco degli anni Settanta che erano i meccanismi di indicizzazione dei salari all’inflazione. Il Governing Council, si affermava, vede con preoccupazione che in sette paesi (tra cui Francia, Belgio e Spagna) essi siano ancora in vigore, li ritiene pericolosi per l’occupazione e per la competitività e invita a smantellarli.

Corre l’anno 2021 ed è un segno dei tempi che il sindacato dei dipendenti della Bce, Ispo, stia chiedendo in questi giorni, come ci informa Politico, l’indicizzazione delle retribuzioni all’inflazione. I 4mila dipendenti della Bce sono quasi tutti basati a Francoforte e l’inflazione tedesca, come avverte la Bundesbank, sta per sfiorare il 6%. Il sindacato Ispo, intellettualmente sofisticato come l’istituzione che copre, condivide in linea di principio le preoccupazioni sulla spirale tra prezzi e inflazione e si augura che questa sia solo un’ondata temporanea. Se però non lo fosse, si chiede, come potremmo recuperare le nostre perdite?

Forme di recupero del potere d’acquisto dei salari, negoziate o automatiche, percorrono la storia del Novecento, ma è soprattutto con l’inflazione che accompagna la fine della seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra che vengono introdotte in quasi tutti i paesi europei, inclusa la Svizzera.

In Italia viene introdotta nel 1945 l’indennità di caropane. Il meccanismo, nei primi due decenni, è molto complesso e viene modificato continuamente. L’indennità è differenziata sulla base della regione, del genere, della categoria professionale e della mansione del dipendente. Con il passare degli anni il meccanismo viene rafforzato e semplificato e raggiunge la sua forma più completa nel 1975. Dal 1984 inizia la sua parabola discendente. La scala mobile viene prima tagliata e poi, in vista dell’ingresso nell’euro, soppressa nel 1992.

La battaglia contro l’indicizzazione è stata in America e in Europa uno dei pilastri del superciclo quarantennale disinflazionista e offertista che parte dalla presidenza Reagan e arriva fin quasi alla fine del decennio scorso. Si noti comunque quanti anni, e in alcuni casi decenni, sono stati necessari per arrivare a bloccare completamente la spirale tra prezzi e inflazione.

Allo stesso modo si poteva pensare, fino a tempi recentissimi, che il nuovo superciclo della domanda e della reflazione avrebbe creato una risposta lenta, graduale e faticosa da parte dei due principali gruppi d’interesse colpiti dall’inflazione, il lavoro e i creditori. Dopotutto anche negli anni Settanta questi due gruppi avevano tardato a reagire.

Ci si poteva poi attendere che prima reagissero i mercati, che passano una parte importante delle loro giornate a studiare l’inflazione. Quanto al lavoro, si poteva supporre che la debolezza dei sindacati e la frammentazione del mercato del lavoro avrebbero per qualche anno prodotto, al massimo, recuperi salariali limitati e una tantum. Prima di arrivare a discutere di nuovo di indicizzazione sarebbero poi dovuti passare altri anni.

E invece siamo già a questo punto. Certo, il caso della Bce è per ora isolato e le richieste del sindacato verranno probabilmente respinte. Segnala però il radicarsi di attese inflazionistiche. Non si chiede l’indicizzazione permanente se si pensa davvero che le tensioni sui prezzi siano solo temporanee.

È chiaro che questo ciclo economico è tanto veloce e impetuoso quanto quello del decennio scorso è stato lento e prudente. È dunque legittimo attendersi che sia più breve o, in ogni caso, che abbia bisogno nel corso dei prossimi anni di pause di raffreddamento. Per chi investe, questo comporta la necessità di sfruttare a fondo la fase ascendente del ciclo, quella in cui di regola è migliore il rapporto tra rischi e opportunità. Già alla fine del 2022, secondo i calcoli di JP Morgan, sarà azzerato l’output gap dei paesi industrializzati. In pratica, da quel punto in avanti, si crescerà solo in funzione della produttività e dell’aumento della forza lavoro e il di più causerà solo inflazione.

Le banche centrali si proclamano pazienti e hanno certamente buone ragioni per esserlo. La crescita globale è tornata forte, ma i rischi rimangono elevati.

Anche la conferma di Powell alla guida della Fed, che i mercati hanno inizialmente visto come una porta lasciata aperta a politiche meno espansive e quasi restrittive, è in realtà la conferma della linea della pazienza. Powell è stato messo in competizione con la Brainard per avere entrambi allineati su politiche ancora espansive. Ora Powell, che già di suo è colomba, sarà sorvegliato a vista non solo dalla Brainard (che la Casa Bianca vede come suo pari) ma anche da un board che, una volta completate le nomine, avrà un profilo ancora più espansivo dell’attuale.

La pazienza delle banche centrali significa che dovrà restare paziente e non prendere profitto, ancora almeno per qualche mese, anche chi è investito nell’azionario. Chi però ha bond o liquidità ha di fronte (e alle spalle) una lunga serie di rendimenti reali negativi. La pazienza, in questo caso, è un lusso che si può permettere razionalmente solo chi tiene questi comparti come copertura contro i rischi di recessione o come parcheggio in attesa di entrare sull’azionario su prezzi più bassi.

Detto questo, per l’inflazione siamo vicini a un massimo di periodo e presto inizierà una fase di rallentamento. Quando questa inizierà, non dovremo però farci troppe illusioni su un ritorno alla normalità del decennio scorso.

L’inflazione nei prossimi anni sarà infatti molto più volatile e resterà per la maggior parte del tempo sopra gli obiettivi delle banche centrali a meno che i target, come qualcuno sta tornando a proporre, non vengano alzati.

A cura di Alessandro Fugnoli, sterategist di Kairos

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