Investimenti: le correlazioni pericolose

Secondo i dati rilasciati a metà novembre dallo statunitense Bureau of Labour Statistics relativi all’occupazione, alle posizioni vacanti e al turnover, la domanda di manodopera delle imprese Usa supera di molto l’offerta, nonostante i miglioramenti degli scorsi mesi.

Visto il potenziale di crescita della produzione aggregata che dovrebbe portare ad un valore inferiore al tasso naturale di disoccupazione (tra il 4,5% e il 5%), in linea con quanto avvenuto prima della pandemia dove il tasso era del 3,5%, è lecito supporre che siano in atto cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro che possono richiedere tempi lunghi e interventi di policy.

A novembre il tasso di disoccupazione ha continuato la discesa raggiungendo il 4,2% (dal 4,6% di ottobre), così come è sceso il numero di disoccupati di lunga durata (-16% anno su anno).

Nonostante i dati positivi, il livello di occupazione è però ancora di circa 4 mln di unità inferiore al febbraio 2020 e, secondo le stime di alcuni economisti, di 7-8 mln inferiore al livello che si sarebbe raggiunto in assenza del Covid. La domanda superiore all’offerta genera pressioni sui salari, soprattutto alla luce delle recenti dichiarazioni di Powell sull’inflazione.

Con l’obiettivo della piena occupazione sostanzialmente raggiunto, la domanda diventa quindi se la relazione inversa tra salari monetari e inflazione (la curva di Phillips) possa riprendere a funzionare, dopo essere “andata in pensione”.

In realtà, la relazione sembra essersi modificata: non è infatti solo la quantità di lavoratori che determinerebbe l’inflazione, ma soprattutto la loro qualità, intesa come capacità di avere voce in capitolo nei contratti. Da questa visuale, l’appiattimento della curva di Phillips sperimentato negli ultimi anni, sembra quindi essere direttamente proporzionale all’appiattimento della capacità di rivendicazione salariale dei lavoratori. In altri termini, la variazione dell’output gap può sfociare in comportamenti dell’inflazione molto diversi, a seconda del contributo relativo del numero dei lavoratori e delle ore per impiegato, nell’aggiustamento ciclico dell’input di lavoro e quindi la risposta inflazionistica varia a seconda se si agisca sull’aumento del numero di lavoratori o delle ore per impiegato.

L’aumento delle retribuzioni Usa nell’ultimo anno, calcolato utilizzando la parità del potere d’acquisto, è cresciuto del 5% circa (in Italia è sceso del 6% circa). Inoltre il tasso di partecipazione al mercato del lavoro è sceso costantemente negli ultimi 20 anni passando dal 67,3% del 2000 al 61,6%. Minore offerta di lavoro e domanda delle imprese crescente che diventano strutturali, aprono la strada ad aumenti dei salari anche nel lungo periodo. L’aumento del costo del lavoro appare difficilmente comprimibile, soprattutto alla luce di un aumento generalizzato dei prezzi che si mantiene intorno a livelli che non si vedevano da 30 anni.

L’inflazione attuale, sostenuta da un aumento dei costi delle materie prime e del lavoro, genera una crescita dei prezzi di vendita di beni e servizi che a loro volta influiscono sui costi di produzione di altri beni e servizi influenzandosi reciprocamente.

Da un punto di vista strettamente economico e tralasciando aspetti sociologici, la situazione economica pandemica e post pandemica, sembra avere alcune similitudini con quella bellica e post bellica, quando l’intera produzione di una nazione è indirizzata agli armamenti ed alle necessità della guerra più che all’offerta di merci di normale impiego e quando il richiamo alle armi porta ad una situazione di piena occupazione. Le differenze sono ovviamente abissali, anche se una sembra spiccare più delle altre. Diversamente dal periodo bellico, dove si riteneva che la velocità di circolazione fosse quasi una costante, grazie al lavoro di Fisher si è compreso che la velocità di circolazione della moneta non è più influenzata solo dalle dinamiche produttive e di consumo, ma anche dai tassi di interesse e dall’inflazione.

La velocità di circolazione diventa quindi una variabile cruciale da definire e da misurare, ma al tempo stessa difficoltosa da controllare e prevedere, quale effetto di correlazioni non più univoche e stabili (motivo questo per il quale le banche centrali monitorano costantemente i vari aggregati M2 e M3 allo scopo di prevederne movimenti). Fondamentale a questo fine è il meccanismo di formazione della aspettative degli attori economici (vedi il contributo di Thaler nella behavioral economy), perché sulla base di esse vengono poi effettuate sia le scelte di politica economica, sia le scelte di consumo. Le diverse dichiarazioni della FED, ma anche della BCE, vanno proprio in questa direzione.

Altrettanto fondamentale è il meccanismo di formazione delle aspettative degli investitori che soggiace alle stesse dinamiche.

A cura di Antonio Tognoli, Head of Research di Integrae Sim

 

 

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