Asset allocation: azionario in cerca di un nuovo equilibrio

Sarà anche di passaggio, l’inflazione, ma non per questo è più leggera. Se anche si arrestasse completamente e scendesse da questa sera a zero, resterebbe vero che in un anno ha comunque alleggerito i redditi e i patrimoni in dollari del 7.5% e quelli in euro del 5 per cento.

La Bce sostiene che nel 2023 l’inflazione europea scenderà addirittura sotto il suo obiettivo ufficiale del 2%. Se fosse così, paradossalmente, la linea moderatamente restrittiva prospettata dalla Lagarde la settimana scorsa (e subito addolcita nelle dichiarazioni successive) sarebbe fin troppo aggressiva e andrebbe velocemente corretta. È chiaro quindi che la Bce (come la Fed) non è sicura delle sue previsioni, che nei mesi scorsi ha del resto continuato a rivedere al rialzo, e cerca di tenersi uno spazio di manovra.

Viene però da chiedersi perché in tutta l’Asia orientale (Cina, Giappone, Taiwan, Singapore, Corea, Indonesia, Malaysia) l’inflazione fino ad oggi non abbia mai superato il 3% e sia ferma al 2.2 in Giappone e all’1.6 in Cina. Un’ipotesi è che questa regione sia stata meno colpita dal Covid nel corso del 2021. La Cina, come tutti ricordiamo, ha pagato un prezzo molto alto all’epidemia all’inizio del 2020, ma è poi riuscita a contenerla con successo. Il Giappone, dal canto suo, ha avuto ondate di intensità moderata (si riportano comunque 20mila morti e 3.5 milioni di casi) e ha tenuto sempre aperta la sua economia.

Il Covid, di per sé, non è però né inflazionistico né deflazionistico, più o meno come tutte le ondate pandemiche del XX secolo. Quanto meno, gli economisti più autorevoli si dividono in parti uguali tra quelli che mettono l’accento sulla compressione della domanda (e quindi sulla pressione al ribasso sui prezzi) creata dalla paura e dai lockdown e quelli che sottolineano invece la pressione al rialzo sui prezzi prodotta dalle strozzature dell’offerta create dalla pandemia.

Se dunque escludiamo il Covid come fattore principale del differenziale d’inflazione tra America ed Europa da una parte e Asia dall’altra, allora la causa va ricercata nella diversità delle risposte monetarie e fiscali che sono state date alla pandemia da un lato e dall’altro del Pacifico.

L’Asia ha infatti sofferto degli stessi problemi dell’offerta che abbiamo avuto noi e paga il petrolio, il rame e l’insieme delle materie prime e dei componenti allo stesso prezzo che paghiamo noi. L’Arabia Saudita, quando vende il suo greggio, non fa un prezzo diverso alla Cina e alla Germania.

Se in Occidente l’inflazione è molto più alta che in Asia, dunque, la causa non va cercata nell’offerta, che Fed e Bce continuano a indicare come unica ragione dell’esplosione dei prezzi, ma nella domanda, che è stata stimolata come in tempo di guerra in America e in Europa, meno in Giappone e quasi per nulla in Cina.

Se è così, esce ridimensionata l’idea dominante del 2020, ovvero che l’entrata del mondo in un nuovo superciclo di politiche basate sulla domanda (e non più sull’offerta come nel quarantennio precedente) non avrebbe provocato inflazione per molti anni (e forse per un paio di decenni, come fu il caso negli anni Cinquanta e Sessanta).

L’illusione di essere invulnerabili e di potere sempre e comunque premere l’acceleratore fino a sfondare il pavimento della macchina senza surriscaldare il motore non è più tra noi. Si può dire che, con la pandemia, abbiamo speso subito (con l’occhio alle scadenze elettorali e con la volontà di battere il populismo sul suo terreno) una parte importante della rendita di risorse inutilizzate ereditata dal quarantennio dell’offerta.

Guardando le cose in prospettiva non è necessariamente un male che sia andata così. Ora siamo intellettualmente più sobri e meno arroganti rispetto a due anni fa. Non per questo torneremo all’insensata austerità del decennio scorso, quell’austerità che l’America ha abbandonato in fretta con la fine del Tea Party e che in Europa si è trascinata a lungo di crisi in crisi, partendo dalla periferia mediterranea e colpendo alla fine anche il cuore manifatturiero tedesco con la recessione del 2018-19.

Abbiamo infatti imparato una lezione che rimarrà nel tempo, ovvero che il pareggio di bilancio è un feticcio privo di senso e che, in regime di tassi bassi, andare in deficit per fare investimenti produttivi (che rendano cioè più del costo del debito pubblico) è un’ottima idea. Perderà invece forza l’idea che qualsiasi idea di spesa sia giusta, incluso il welfare mascherato da investimento in infrastrutture umane, a meno che non serva a compensare eccessi di risparmio privato.

Avremo modo di misurare fra qualche anno l’efficienza degli investimenti e dei sussidi pubblici per i semiconduttori, la digitalizzazione e la transizione energetica. Vedremo se ne uscirà un’economia più forte e più stabile o una perdita progressiva di slancio come si è visto a volte quando la politica industriale diventava troppo invasiva. Quello che conta sapere adesso è che questa spinta, insieme a quella derivante dal riarmo su scala globale, non verrà ridimensionata dalle preoccupazioni per l’inflazione e ci sarà comunque.

In compenso, se si uscirà dalla logica di spendere a tutti i costi su qualsiasi fronte e se si sgonfierà la liquidità in eccesso senza per questo crearne carenza, avremo un’inflazione più contenuta e la possibilità di un ciclo economico positivo molto più lungo.

Rientrare nella normalità (sia pure riveduta rispetto al decennio scorso) è una manovra complessa che sarà gestita con gradualità. I mercati, in gennaio, hanno già incorporato nei prezzi una parte importante del costo di questo rientro. La sorpresa ha accelerato l’uscita di chi si era troppo attardato sulla narrazione di un’inflazione che sarebbe scesa da sola senza bisogno di qualche piccolo colpo di freno.

Una volta ripulito, l’azionario si è ricomposto e ora cerca un nuovo equilibrio non solo nel livello degli indici ma anche correggendo eccessi e distorsioni. Per il momento tutto fa pensare che sia un processo sano.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos

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