Mercati: all’orizzonte lo spauracchio della stagflazione

Nelle ultime settimane la curva dei rendimenti USA si sta appiattendo e segnala che gli operatori del mercato si attendono un rallentamento economico che potrebbe avere come risvolto negativo la stagflazione. Del resto, i dati parlano chiaro. L’inflazione al 7,5% (la più alta degli ultimi 40 anni) e un PIL annualizzato al 2% (con le stime in costante riduzione per via dell’aumento dei tassi), sembrano indicare che stiamo lentamente scivolando verso la temuta stagflazione.

La lotta alla stagflazione è particolarmente complessa, in quanto per diminuire la spinta inflazionistica le banche centrali dovrebbero ridurre la massa di moneta circolante (alzando i tassi) e per questa via contenere la domanda di beni e servizi. La diminuzione della domanda causata da una riduzione della massa monetaria non favorisce la crescita economica e quindi la diminuzione della disoccupazione, entrambi obiettivi della FED. L’inflazione è l’inizio della spirale salari/prezzi. Negli anni 70/80 questa tendenza fu stroncata dalla delocalizzazione che ha fortemente ridotto la possibilità di contrattare eventuali aumenti salariali riportando in equilibrio il mercato del lavoro, stroncando un ulteriore peggioramento dell’inflazione. Oggi le leve usate negli anni 70/80 non sono praticabili e la politica monetaria restrittiva risulta sempre meno efficace.

Occorre muovere le leve della politica fiscale, riducendo la spesa corrente e la pressione fiscale, unici strumenti efficaci per stimolare i consumi e per questa via la domanda aggregata di beni e servizi. La crescita economica che ne consegue renderebbe possibile una ripresa dell’occupazione. Alle Banche Centrali spetta il compito di fine tuning, ovvero di equilibrare con la maggiore precisione possibile, la liquidità immessa nel sistema, in particolare attraverso una migliore allocazione della massa monetaria che accompagni la ripresa dell’economia.

La lotta alla stagflazione comporta un aumento dei tassi che sui mercati azionari significa un aumento del premio per il rischio richiesto dagli investitori. Il maggiore rendimento indotto si può verificare solamente comprando a prezzi più bassi, che quindi scendono fino a quando il rendimento desiderato non è compatibile con il maggior rischio sopportato. I mercati azionari sono dunque interessati all’inflazione nella misura in cui le banche centrali muovono i tassi. Se questi rimangono fermi è come se l’inflazione non esistesse, ma se si muovono allora i prezzi si devono adeguare alle mutate condizioni di rischio.

Occorre però capire se i tassi reali continueranno ad essere negativi e soprattutto in che misura si muoveranno verso lo zero. Se l’avvicinamento allo zero sarà graduale, allora l’effetto della crescita dei tassi reali sarà poco percepita dai mercati che continueranno a performare positivamente. Come abbiamo avuto modo di dire più volte, la spinta sarà però meno forte e la volatilità più alta che negli ultimi 12 mesi. Il rischio rimane quello che la FED si spaventi troppo dell’inflazione e aumenti i tassi di interesse nel momento in cui l’economia comincia gradualmente a rallentare verso il suo potenziale. La FED ha quindi di fronte un bel rebus che è chiamata a risolvere entro il prossimo meeting, previsto per il 16 marzo. Intanto ci aspetta un aumento della volatilità, come abbiamo modo di sperimentare negli ultimi giorni.

La strategia da seguire in questi casi è quella di comprare volatilità, acquistando/vendendo opzioni call/put allo scopo di “coprire” il portafoglio dalle forti oscillazioni dei prezzi.

A cura di Antonio Tognoli, Head of Research di Integrae Sim

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