Investimenti: l’outlook di Zest

Per due delle principali regioni economiche come la Cina e l’Ue, il tasso di crescita della popolazione è in contrazione quasi inesorabile da 60 anni e il tasso annuo di crescita composto (Cagr) previsto al 2050, a partire da 2021, diventerà negativo. Questa situazione si spiega in gran parte con la cosiddetta “politica del figlio unico” per quanto riguarda la Cina, mentre il Vecchio Continente risente di una riduzione della natalità soprattutto in Germania. Questo scenario è però presente anche su scala molto più ampia dato che anche il tasso di crescita della popolazione mondiale è in calo da anni, con un importante contributo negativo di Russia e Giappone. Quindi, la crescita della popolazione contribuirà negativamente alla crescita economica a lungo termine”, spiega Alberto Conca, gestore di Zest.

La produttività è un altro fattore importante ed è interessante notare come l’economia statunitense abbia registrato un picco di produttività negli ultimi trimestri, a differenza dell’Europa. Uno dei motivi principali risiede nel numero molto più alto di aziende tecnologiche presenti negli Usa, caratterizzate da una produttività marginale più elevata, ma questa non è l’unica motivazione.

Dando un’occhiata più da vicino all’evoluzione del Cagr della produttività statunitense negli anni e prendendo come riferimento diversi intervalli di tempo, possiamo notare un’impennata alla fine degli anni Novanta, normalizzatasi negli anni successivi, oltre al picco degli ultimi cinque anni, menzionato in precedenza.

Ma, scomponendo i fattori di produttività, appare chiaro come la tecnologia non sia l’unico driver della recente impennata; anche gli incentivi fiscali infatti, oltre ai cambiamenti nella composizione del lavoro, hanno svolto un ruolo importante.

Dall’inizio della pandemia, i settori dell’intrattenimento, dell’ospitalità e dei servizi in generale sono stati colpiti in modo sproporzionato da una drammatica riduzione dell’occupazione. Questo cambiamento nella composizione del lavoro, a favore di settori a maggiore intensità di capitale o tecnologicamente avanzati, ha generato un picco artificiale di produttività, che riteniamo non essere sostenibile. L’intensità di capitale nei settori “non servizi” è molto più elevata e spiega l’aumento della produttività totale dei fattori.

“Durante le recessioni “tradizionali” il settore dei servizi è il più resiliente, ma durante la crisi del Covid è stato il più colpito e, considerando come i consumi rappresentino circa il 70% dell’economia statunitense, riteniamo che l’impatto sulla produttività possa essere di rilevo”, continua Conca.

A questo punto, dopo aver delineato i principali driver di crescita, appare interessante ampliare la nostra prospettiva e valutare il contributo regionale alla crescita del Pil mondiale. Confrontando le due principali economie mondiali possiamo notare come il contributo della Cina alla crescita del Pil dopo il picco del 2015 sia in calo: il contributo del Pil Cinese è passato da oltre il 30% nel 2015 a meno del 20%, e ci aspettiamo possa scendere ulteriormente a causa dell’attuale crisi immobiliare. Questo significa aver assistito a una contrazione del contributo cinese di oltre dieci punti percentuali in soli cinque anni mentre d’altra parte notiamo come il contributo del Pil degli Stati Uniti sia stato relativamente stabile nell’ultimo decennio.

Per quanto riguarda l’inflazione, essendo un driver di crescita, siamo d’accordo con la Fed nell’attribuire la colpa dell’attuale picco inflattivo all’enorme shock subito dalla catena di approvvigionamento globale, causato dalla pandemia. A nostro avviso, questa tesi è corroborata dal fatto che la velocità di circolazione della moneta ha raggiunto nuovi minimi nonostante la pandemia; questo sembra rafforzare la teoria secondo cui l’inflazione non sia “guidata dalla domanda”, ma dall’offerta. Riteniamo infatti che in caso contrario avremmo dovuto osservare a seguito della pandemia un aumento nella velocità di circolazione del denaro.

Considerando quanto appena analizzato, riteniamo interessante quanto emerge dal confronto del rendimento statunitense a 10 anni con il deflattore Pce statunitense (l’indice dei prezzi per la spesa per i consumi personali). Nonostante l’inflazione sia aumentata in modo significativo negli ultimi due anni, i tassi a lungo termine non sono aumentati proporzionalmente. Se la relazione storica fosse rimasta intonsa, avremmo assistito a un aumento molto più sostanziale dei rendimenti a 10 anni, che invece non si è manifestato. A nostro avviso, il motivo per cui i rendimenti sono attualmente bassi potrebbe risiedere nelle aspettative a lungo termine dei driver del mercato.

Di questo troviamo un’ulteriore conferma nel fatto che lo spread tra i Tips (obbligazioni protette dall’inflazione) e i rendimenti a 10 anni si è ampliato a causa dell’aumento dei rendimenti e non a causa di una ripresa delle aspettative di inflazione a lungo termine. La normalizzazione della filiera globale porterà maggiore chiarezza sulle aspettative inflazionistiche.

“Confrontando il rendimento statunitense a dieci anni e il tasso di interesse naturale stimato dalla Fed  emerge come alla fine del 2020 la politica monetaria fosse ancora estremamente accomodante e che ci sarebbe potuto essere spazio per aumentare i tassi senza grossi ostacoli alla traiettoria di crescita dell’economia”, conclude Conca.

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