Dal momento che l’inflazione ha fatto finalmente un ritorno inaspettato sulla scena internazionale e quindi le Banche Centrali dei Mercati Sviluppati sono ora disposte a normalizzare la loro politica monetaria, i prossimi mesi potrebbero rivelare alcune tendenze insolite nei mercati finanziari rispetto al decennio precedente. Benché ne stiamo già assistendo ad una importante nei mercati azionari, con lo stile growth che non sovraperforma più le azioni value, penso che potremmo sperimentare anche tendenze “bizzarre” o impreviste nei mercati dei cambi/valute o delle obbligazioni. Iniziamo con il mercato dei cambi/valute questa settimana e la prossima settimana mi occuperò dei mercati obbligazionari.
La stragrande maggioranza delle economie del G10, tranne Giappone e Svizzera, ha a che fare oggi con un eccesso di inflazione, il che è un grande cambiamento, a dir poco, rispetto al decennio precedente, quando il problema numero uno per i banchieri centrali era il rischio di deflazione. Con il mercato del lavoro che migliora molto più velocemente del previsto, i prezzi delle materie prime e dell’energia che aumentano per ragioni strutturali (vale a dire la mancanza di investimenti e la transizione energetica), ed una situazione patrimoniale dei consumatori complessivamente solida, la domanda è: quanto spazio di allentamento è rimasto in queste economie? Probabilmente non così ampio nelle economie anglosassoni, date le condizioni del mercato del lavoro attualmente già strette (dovute in larga misura alle Great Resignation sperimentate negli Stati Uniti, cioè persone che vanno in pensione anticipatamente o escono dalla forza lavoro) e il veloce restringimento dell’output gap. Mentre l’output gap è probabilmente più ampio in Europa (a seguito delle conseguenze ereditate dallo scorso decennio e della ripresa post-pandemia, che è rimasta in ritardo rispetto agli Stati Uniti), dobbiamo tenere a mente che i tassi di disoccupazione europei sono strutturalmente più alti (mercato del lavoro meno flessibile ed è difficile immaginare un massiccio esodo di disoccupati dal Sud al Nord Europa). Quindi, ora immaginiamo di essere nei panni dei banchieri centrali e di voler inasprire le condizioni finanziarie, quali sistemi si preferirebbero per ottenere oggi un tale risultato: aumentare i tassi target, quantitative tightening (cioè vendite definitive di asset nei bilanci delle Banche Centrali) o semplicemente lasciare che la valuta si apprezzi? Ammetto che non sarà facile spingere più in alto la propria valuta senza imbarcarsi davvero in un ciclo di inasprimento, ma bisogna ammettere che la maggior parte dei banchieri centrali dei mercati sviluppati non si lamenterà davvero di un rafforzamento della propria valuta nel contesto attuale… Tranne ovviamente la Banca del Giappone (BoJ) e la Banca Nazionale Svizzera (SNB) per il momento, che non si trovano ancora di fronte a pressioni inflazionistiche significative e preoccupanti.
Questo è il motivo per cui credo che la BCE sia ora in una trappola. Se la Banca Centrale Europea quest’anno non inizia a normalizzare la sua politica monetaria, l’euro potrebbe continuare a indebolirsi contro il dollaro. Se la Presidente Lagarde dovesse rialzare, i tassi d’interesse nominali positivi potrebbero potenzialmente rappresentare una grande minaccia per l’eurozona, in quanto gli spread periferici, così come quelli del credito, potrebbero crescere ulteriormente e in modo alquanto incontrollato. Perché? Perché quando si passa da indicazioni prospettiche che prevedono che i tassi rimarranno bassi (leggasi in territorio negativo) e che ci “copriranno le spalle” per il prossimo futuro, gli investitori percepiscono che sarà per sempre e iniziano a correre rischi maggiori, come aumentare i rischi di duration e/o scendere nello spettro del credito, al fine di evitare una vera e propria repressione finanziaria visibile sotto forma di tassi nominali negativi. Non si dimentichi che la BCE ha anche acquistato proporzionalmente molti più titoli di stato e obbligazioni societarie della Fed. Il bilancio della BCE rappresenta circa il 65% del PIL dell’UE contro il 36% della Fed. Quindi, terminare il QE e poi tornare a tassi nominali positivi potrebbe rivelarsi un compito erculeo per la BCE. In altre parole, l’aumento di 50 punti base per portare a zero i tassi nell’Eurozona richiederà molto più tempo e sarà molto più destabilizzante per i mercati di un potenziale aumento di 50 punti base da parte della Fed il mese prossimo. Il problema è che se la BCE procrastina, l’euro potrebbe indebolirsi, aggravando le pressioni inflazionistiche… Per non parlare del fatto che un’escalation delle tensioni tra Russia e Occidente sull’Ucraina probabilmente avvantaggerà più il biglietto verde che la moneta unica, spingendo più in alto anche i prezzi dell’energia, e soprattutto del gas naturale, il che è più un problema per l’Europa che per gli USA.
Ludovic Colin, senior portfolio manager di Vontobel AM ha dichiarato qualche giorno fa sul Financial Times: “La BCE ha avuto molti piani per creare inflazione, ma zero piani su cosa fare in caso di successo”. Gli investitori e i mercati si stanno semplicemente rendendo conto che purtroppo “C’est pas faux!” (“Non è sbagliato!”). In questo contesto, in modo pragmatico, sono ancora a mio agio con una grande esposizione netta al Dollaro USA nei portafogli EUR -potrebbe anche essere aumentata al limite se si accettano le argomentazioni qui sopra- e potrebbe anche rivelarsi saggio aumentare (o almeno riconsiderare) la duration del dollaro a spese della duration dell’euro sia per le obbligazioni sovrane che per quelle di credito.
Calendario economico
Dato che non ci saranno molti dati economici di rilievo questa settimana, la situazione geopolitica e i discorsi o le interviste dei banchieri centrali saranno probabilmente i principali motori dei mercati finanziari nei prossimi giorni. A proposito, supponendo che non ci saranno nuove controverse notizie geopolitiche nelle prossime ore, oggi dovrebbe essere una sessione relativamente tranquilla, dato che i mercati statunitensi sono chiusi per il Presidents’ Day. Partendo dai dati, gli unici due report principali da tenere d’occhio questa settimana saranno:
- Gli indici Flash Manufacturing PMI e Flash Services PMI di febbraio in tutto il mondo saranno pubblicati oggi in Europa e domani negli Stati Uniti (i mercati statunitensi sono chiusi oggi per il Presidents’ Day). Nell’area Euro, il PMI composito dovrebbe rimanere sostanzialmente invariato intorno a 52.5, con una leggera contrazione del PMI manifatturiero compensata da un modesto aumento nei servizi, mentre l’impatto negativo di Omicron comincia a svanire. Stessa dinamica negli Stati Uniti. Si noti tuttavia che il nostro modello ISM prevede una lettura di 54,2 per il 1 marzo, in calo rispetto al dato ufficiale di gennaio di 57,6. Se la nostra previsione si rivelasse corretta, sarebbe la lettura più bassa dalla fine dell’estate 2020. Per il momento, i mercati non si preoccupano (molto) delle prospettive di crescita, ma il momentum sta chiaramente rallentando. Una tale lettura creerebbe inoltre imbarazzo alla Fed e probabilmente le impedirebbe di effettuare un rialzo di +50bps a marzo… tranne se le pressioni inflazionistiche si intensificassero ulteriormente secondo i prossimi rapporti sull’occupazione e il CPI (Indice dei prezzi al consumo) o i dati core PCE (si veda il prossimo punto). In ogni caso, questo contesto di alta inflazione e di crescita più lenta è attualmente abbastanza favorevole per l’oro poiché i rischi di stagflazione (versione leggera, a mio parere) stanno riemergendo.
- Il rapporto sul reddito personale e le spese di consumo di gennaio con un’attenzione particolare al deflatore PCE core, che rimane l’indicatore d’inflazione preferito dalla Fed. Il consensus si aspetta che il PCE core aumenti del +0,5% dopo il +0,4% di dicembre, quanto basta per spingere la lettura su base annua a un nuovo massimo pluridecennale del 5,2%.
I dati sulla fiducia dei consumatori negli Stati Uniti (domani con l’indice del Conference Board e venerdì con la lettura finale del Sentiment dell’Università del Michigan per febbraio), in Germania (mercoledì) ma anche nel Regno Unito, in Francia o in Italia nel corso della settimana, forniranno indizi su come il contesto inflazionistico stia pesando sul sentiment dei consumatori. La crisi energetica in Europa, l’aumento dei prezzi della benzina negli Stati Uniti, i sell offnel mercato azionario, le tensioni geopolitiche al confine con l’Ucraina, così come le nuove forme di malcontento sociale in alcune economie dei Mercati sviluppati attraverso il “Freedom convoy” non hanno probabilmente aiutato a risollevare l’umore dei consumatori ultimamente, nonostante un mercato del lavoro solido. Come promemoria, l’indice di povertà negli Stati Uniti (somma del tasso di disoccupazione e del tasso di inflazione) si trova ora all’11,5%, livello che non si vedeva dai tempi della GFC, se si esclude il recente problema connesso alla pandemia, mentre il sentiment dei consumatori dell’Università del Michigan è tornato a livelli raramente visti fuori dai tempi della recessione.
Conosceremo anche i dati sugli ordini di beni durevoli per gennaio (venerdì), che dovrebbero salire del +0,4%, più o meno come gli ordini di beni capitali core (cioè esclusi difesa e trasporti) – una buona proiezione della crescita del capex statunitense, che finora è stata sorprendentemente poco brillante secondo gli ultimi rapporti sul PIL. Infine, vedremo se negli Stati Uniti l’aumento dei tassi (ipotecari) stia colpendo anche le vendite di case nuove e in costruzione (giovedì e venerdì), che sono rimbalzate alla fine dello scorso anno. Potrebbe essere troppo presto, ma l’aumento dei tassi ipotecari, i prezzi senza precedenti delle abitazioni, le condizioni finanziarie più strette in generale e il rallentamento della crescita per il 2023 a un certo punto diventeranno probabilmente venti contrari.
Passiamo al circo diplomatico. Le tensioni tra Russia e Occidente sull’Ucraina continueranno certamente a dominare i titoli dei giornali questa settimana, infiammando il sentiment degli investitori con nuovi tentativi di de-escalation diplomatica (il ministro degli esteri russo Lavrov incontrerà il segretario di stato americano Blinken) e storie contrastanti sul ritiro delle truppe russe o sull’invasione dell’Ucraina. Se la settimana scorsa si è dimostrata una buona lezione, il continuo tira e molla di buone e cattive notizie dovrebbe contribuire ad esacerbare incertezze e volatilità. Quello che mi pare singolare è che il presidente Biden, informato dall'”intelligence” statunitense, sembra molto più preoccupato e inquieto dei leader europei… Nel caso di un attacco, che davvero non mi auguro, sarebbe interessante vedere se la famosa citazione “Buy at the sound of cannons” (attribuita al finanziere Nathan Mayer Rothschild durante le guerre napoleoniche) sarà confermata ancora una volta come fu per esempio durante l’invasione dell’Iraq nel 2003 (se ricordo bene l’intelligence statunitense trovò anche un mucchio di buone ragioni per invaderlo). Comunque, c’è un’arma ben più dannosa da temere per gli investitori: Il primo rialzo Big Bertha della Fed il mese prossimo e l’intero ciclo di rialzo delle banche centrali dei mercati sviluppati che segnerà -almeno simbolicamente- la fine (temporanea?) del denaro facile.
Per quanto riguarda i banchieri centrali, bisogna tenere le orecchie ben aperte perché diversi funzionari della Fed parleranno questa settimana insieme ad alcuni membri della Banca d’inghilterra. Poiché i verbali dell’ultima riunione del FOMC di gennaio non hanno offerto molti spunti sulla dimensione del primo rialzo (sappiamo solo che il primo colpo sarà sparato il mese prossimo), la domanda cruciale per gli investitori al momento è quale sarà la dimensione del primo rialzo: un petardo da 25 punti base o una più seria bomba da 50 punti base. Sospetto che nessuno si impegnerà perché la giuria non si è ancora espressa… anche tra i membri della Fed. Gli sviluppi geopolitici, così come il prossimo rapporto sull’occupazione, il deflatore PCE e le stampe del CPI (indice dei prezzi al consumo) faranno pendere l’ago della bilancia.
Infine, la stagione degli utili sta volgendo al termine, soprattutto negli Stati Uniti, dato che quasi il 90% delle società dello S&P500 ha già pubblicato i propri dati. Questa settimana, i principali rapporti sugli utili del quarto trimestre verranno da aziende come Home Depot, Lowe’s, Alibaba, Rio Tinto, HSBC o BASF.
A cura di a cura di Fabrizio Quirighetti, Decalia