Investimenti: ecco come muoversi in questa fase secondo Integrae Sim

Nel 2019 prima della pandemia il tasso di disoccupazione Usa aveva toccato il 3,5%, al di sotto quindi del tasso naturale pari al 4% circa indicato dagli economisti come rappresentativo dell’economia, senza che questo generasse spinte inflazionistiche. I dati del mese di aprile indicano che siamo al 3,6% (molto vicini quindi al 3,5% toccato nel 2019).

Ci sono tuttavia profonde differenze e di non poco conto tra il dato attuale e il 3,5% del 2019: le spinte salariali (nell’ultimo anno le retribuzioni USA calcolate utilizzando la parità del potere d’acquisto sono cresciute del 6%), che si fanno sempre più pressanti con un’inflazione prossima al 7,5% e aprono la strada ad un aumento generalizzato dei prezzi, l’energia il cui prezzo non accenna a diminuire (che ha raggiunto livelli che non si vedevano dal 2008) e quello delle materie prime, sempre più scarse e con prezzi in crescita.

Eccola la differenza sostanziale: l’inflazione, che appare oggi molto più insidiosa del 2019 perché arriva da tutte le componenti produttive: lavoro, energia e materie prime. E presto, potrebbe arrivare anche dal costo del capitale (nel meeting del prossimo 4 maggio la FED potrebbe decidere di aumentare i tassi di 0,5 bp).

Le imprese dovranno quindi fare i conti con crescenti costi dei fattori produttivi. In generale, questo genera una crescita dei prezzi di vendita di beni e servizi che a loro volta interagiscono con i costi di produzione di altri beni e servizi, influenzandosi reciprocamene. Il risultato finale è una spirale di crescita di costi e prezzi che si autoalimenta.

Difficile che in questo scenario le imprese siano in grado di mantenere i profitti, visto che non tutte sono in grado di aumentare i prezzi finali di vendita di una percentuale almeno pari all’aumento dei costi.

C’è ancora tempo per evitare questo scenario?

Poco, ma c’è. Ma occorre una manovra a tenaglia, in prima battuta politica (non è un mistero che la Cina abbia fatto incetta di materie prime sostenendone i prezzi e che l’arrivo del petrolio Iraniano sul mercato ridurrebbe l’incremento dei prezzi energetici) che agisca sul lato dell’offerta in modo da consentire una minore spinta inflazionistica da costi. Allo stesso tempo, occorre agire sul lato della domanda. Alle banche centrali spetta il compito di ridurre la qualità di moneta (e la sua velocità di circolazione) e ai governi spetta invece il compito di non far crescere troppo i prezzi, perché questo scatenerebbe pressioni salariali innescando la pericolosa spirale salari/prezzi.

Anche la politica fiscale può concorrere al controllo dell’inflazione: una diminuzione delle imposte indirette genera una riduzione dei prezzi, perché esse gravano sul prezzo dei beni. Non vale per quelle dirette dove la loro diminuzione aumenta il reddito disponibile e quindi i consumi (in realtà anche il risparmio). Per ridurre l’inflazione occorrerebbe quindi aumentare le imposte dirette (IRPEF, IRES) e diminuire quelle indirette (IVA). Da non sottovalutare che anche la spesa pubblica può concorrere alla diminuzione dei prezzi, attraverso la diminuzione delle spese dello Stato, diminuendo la spesa corrente (interessi passivi o salari) e riducendo la spesa in conto capitale (costruzione di opere pubbliche). Chiaramente tutto questo ci porta però a dover accettare una riduzione della crescita economica e un aumento della disoccupazione.

Le banche centrali ed i governi hanno dato prova negli ultimi due anni di aver agito in modo corretto (anche se non sempre tempestivo, collocandosi spesso dietro la curva). Non ci sono fondati motivi per i quali non dovrebbero continuare a farlo. Certo è che lo scenario internazionale è ulteriormente complicato dalla guerra in corso e dalla forte globalizzazione dell’economia.

Il dispiegarsi della politica monetaria e ancor più quella fiscale, richiede tuttavia tempo. E, come è noto, il tempo è denaro.

Quali investimenti consentono di seguire il cammino della politica economica verso la situazione di equilibrio?

Intanto la scelta del periodo temporale, che deve essere necessariamente a medio e lungo termine.

Crediamo che l’investimento debba privilegiare le società che possono aumentare i prezzi a fonte di una crescita dei costi di produzione (ovvero quello che producono cassa e hanno una redditività superiore a quella media del proprio settore).

Per quanto riguarda invece i bond, le opportunità di trovare rendimenti reali positivi sono limitate, a meno di forti cali dell’inflazione o dell’assunzione di un livello di rischio elevato. I titoli protetti dall’inflazione rappresentano una garanzia contro il fallimento nel contenere l’inflazione (le banche centrali al momento non hanno avuto tanto successo su questo fronte). Se quest’ultima dovesse rimanere alta gli investitori potrebbero anche guardare a strategie alternative (hedge fund ?)per proteggersi dall’aumento dei tassi e dall’ampliamento degli spread.

A cura di Antonio Tognoli, Head of Research di Integrae Sim

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