Asset allocation, frena la crescita Usa: ecco cosa fare secondo Integrae Sim

Si conferma il forte rallentamento della crescita USA nel primo trimestre. Occorrerà ora capire se la decelerazione sia sufficiente alla FED per consentire di smorzare l’inflazione e le conseguenti e inevitabili spinte salariali. In altre parole se Biden confermerà il rialzo di 50 bp dei tassi nel meeting del 4 maggio, come ventilato. Ricordiamo che i recenti dots riportavano sette rialzi per il 2022 e quattro per il 2023 (a dicembre erano tre per ciascun anno). Secondo le nostre stime, riteniamo probabile un aumento di 25 bp a maggio, considerato che all’ultimo meeting hanno infatti partecipato un minor numero di membri votanti a causa della transizione in corso nella composizione della leadership della FED e che nessuno dei canditati del Presidente Biden ha partecipato.

Lo scorso febbraio gli indici dei prezzi al consumo USA headline e core hanno entrambi toccato massimi pluridecennali, raggiungendo rispettivamente il 7,9% e il 6,4%, allontanandosi dal range a lungo termine del 2,0% auspicato dalla FED. Sulla base del mercato dei TIPS, per i prossimi cinque anni è prevista un’inflazione media del 3,6%, mentre per i dieci anni al momento la media è pari al 2,95%. L’interpretazione del mercato è quindi che la FED sarà più tollerante che in passato nei confronti di un’inflazione media che risulta tra le più elevate degli ultimi 30 anni.

Se così fosse, significa che i sette rialzi da 25 pb che il mercato dei futures sconta per quest’anno sono da considerarsi il limite massimo dei potenziali rialzi. Siamo quindi convinti che i nuovi membri propenderanno per una posizione accomodante (quando Powell ha dovuto scegliere tra due alternative, senza tuttavia il cappio dei massimi pluridecennali di inflazione, ha optato per quella più accomodante).

Occorre precisare che una buona parte dell’inflazione USA è dovuta alle limitazioni sul fronte dell’offerta che, complice la carenza di forza lavoro che ha determinato pressioni rialziste sui salari, ha alimentano direttamente la crescita dei prezzi. Ciò significa che l’arma del rialzo dei tassi di interesse risulta un po’ spuntata per contrastare un’inflazione provocata da fattori relativi all’offerta.

La FED si trova davanti ad un bivio

Da una parte è consapevole che la natura dell’impennata dell’inflazione è stata acuita dai recenti eventi geopolitici e amplificata dalle preoccupazioni degli investitori per la possibilità di errori nella politica monetaria, ma dall’altra si rende perfettamente conto che una stretta eccessiva potrebbe far scivolare l’economia verso la recessione. Rimanere tuttavia dietro la curva e consentire che le aspettative di inflazione vengano incorporate nei rendimenti, farebbe finire sotto pressione i prezzi delle obbligazioni.

Crediamo che la FED metterà in atto ogni tentativo per procedere con cautela, che tuttavia potrebbe rendere ancora più volatili i tassi a lungo termine (l’attenzione degli investitori sarebbe infatti concentrata sul rischio di un’inflazione superiore ai livelli tendenziali).

In questa fase riteniamo quindi che gli investitori dovrebbero guardare con cautela a un allungamento della duration del portafoglio obbligazionario. Inoltre, considerato l’appiattimento relativo della curva, il rendimento incrementale per detenere scadenze più lunghe potrebbe non essere del tutto compensato dal più elevato rischio. Da non sottovalutare infine l’incertezza geopolitica.

L’asset allocation

La nostra convinzione continua ad essere quella di privilegiare l’investimento in azioni, almeno fintanto che i tassi di interesse reale rimarranno negativi, privilegiando le aziende di quei settori che sono in grado di aumentare i prezzi finali di vendita a un aumento dei costi complessivi di produzione.

A cura di Antonio Tognoli, Head of Research di Integrae Sim

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