Asset allocation: Piazza Affari resta una valida opportunità. Ecco perchè

Nel corso degli ultimi decenni la ricchezza mondiale è cresciuta grazie soprattutto al debito, che è ormai prossimo a toccare i 300 triliardi di dollari, ovvero il 380% del PIL globale (nel 2019 era il 320%). Nei Paesi dell’area euro per effetto delle misure di emergenza per contrastare il coronavirus, il debito a fine 2021 era prossimo agli 11,3 trilioni di euro (circa il 101% del PIL) e potrebbe ulteriormente aumentare allo scopo di smorzare gli effetti economici negativi di una guerra di difficile soluzione.

Dall’inizio dell’anno, al fine di contrastare l’inflazione, la politica monetaria si va tuttavia facendo sempre meno accomodante e tutte le banche centrali hanno cominciato una serie di rialzi dei tassi (manca ancora all’appello la BCE, ma ormai siamo agli sgoccioli). Con lo stock di debito più elevato, il costo per finanziare il debito sarà tendenzialmente maggiore.

Prendiamo per esempio l’Italia che, dopo la Grecia, è il paese Europeo con il più alto rapporto debito/PIL: 156,3% a fine 2021 (è stato così elevato solo nel 1920), tendente al 150% (Visco). Di solito gli investitori non si preoccupano se sanno che lo stato potrà far fronte alla spesa per interessi aumentando le tasse e/o riducendo le spese. Se tuttavia il livello del debito è elevato e l’avanzo primario non è sufficiente per determinarne una tendenza alla riduzione in rapporto alla dimensione dell’economia, allora il rischio percepito comincia ad aumentare e gli investitori chiedono un maggiore rendimento (nel caso dell’Italia aumenta lo spread).

La situazione è ancora più grave quando il tasso d’interesse è persistentemente maggiore del tasso di crescita dell’economia: questa situazione genera il cosiddetto “effetto palla di neve”, ossia l’accumulo di debito per effetto dell’interesse composto, che obbliga a tenere un livello più elevato di avanzo primario. Questa è la situazione italiana, anche se durante gli anni di politica monetaria accomodante è continuata l’opera di aumento della vita media del debito, che ora è 7,7 anni, a vantaggio del suo futuro costo: tra il 2021 e il 2030 con un spread medio di 120 punti, stimiamo che la spesa complessiva per gli interessi sarà di 550 miliardi di euro circa, (nel decennio 2010 – 2019 è stata 727 miliardi di euro). Non entriamo ovviamente in complicate discussioni politiche di chi sarà il Presidente del Consiglio all’indomani delle elezioni politiche e di come questo condizionerà lo spread.

Limitiamoci ai fatti. La situazione Italiana degli ultimi 25 anni evidenzia persistentemente un tasso di interesse maggiore del tasso di crescita del PIL (trascuriamo quello straordinario del 2021), una spesa pubblica e una pressione fiscale sostanzialmente immodificabili. La differenza fra tasso di interesse e tasso di crescita appare inoltre endogena: una condizione di scarsa fiducia nella capacità dello stato di far fronte alle proprie obbligazioni nei confronti dei detentori dei titoli pubblici spinge verso l’alto il tasso di interesse e verso il basso il tasso di crescita. La prospettiva del default (che grazie a Draghi e al sostegno dell’Europa sembra allontanarsi) o di maggiori tasse per evitare il default, tiene lontani non solo gli investitori finanziari, ma anche le imprese, nazionali ed estere (le Italiane delocalizzano e quelle estere se ne vanno dall’Italia), e deprime gli investimenti in capitale produttivo. Si genera così un circolo vizioso, in cui la bassa crescita interagisce con l’alto debito e i due problemi si aggravano a vicenda.

Quando la crescita economica mondiale rallenta, i Paesi più  a rischio cominciano a scricchiolare (vedi 2008) e quelli con poco “spazio fiscale” sono costretti ad importare la recessione, che peggiora ulteriormente il rapporto debito/PIL e rende necessarie politiche restrittive che aggravano i problemi dell’economia reale, causano fallimenti delle imprese, disoccupazione e aumento della povertà e di tutti gli indicatori di disagio sociale.

Per mettere in sicurezza i conti del Paese la teoria economica suggerirebbe un avanzo primario fra il 3% e il 4% l’anno, mantenuto per molti anni. Cosa peraltro difficile da realizzare. Nessun movimento politico accetterebbe infatti di essere etichettato come il partito delle tasse e/o di drastici tagli alla spesa nell’ordine di quelli che sarebbero necessari. Va detto che anche il Fondo monetario giunge comunque alla conclusione che avanzi primari del 3-4% non sono realistici, in particolare per l’Italia.

Esistono soluzioni alternative?

Certo che esistono. Negli ultimi anni sono state avanzate varie proposte di mutualizzazione dei debiti pubblici dell’Eurozona, alcune peraltro molto fantasiose e poco realizzabili. La proposta più influente è stata quella avanzata nel 2011 dal Consiglio degli esperti economici tedeschi che, dieci anni dopo e opportunamente aggiornata, da un punto di vista strettamente economico potrebbe anche funzionare. L’idea è quella di mettere i debiti in eccesso la soglia del 60% in un Fondo comune (detto ERF, European Redemption Fund) che si finanzia sul mercato per acquisire i debiti degli stati membri. In cambio, gli Stati più fragili si sottoporrebbero a condizioni severe, volte a eliminare i debiti al di sopra della soglia e a far sì che il Fondo possa cessare l’attività nell’arco di 20–25 anni. Sono previste sanzioni, quali la cessazione dei riacquisti dei titoli in scadenza, per evitare che i paesi membri vengano meno agli impegni assunti in materia di politiche di bilancio. Un’altra via sicuramente meno drastica, è quella di aumentare il denominatore (il PIL) mantenendo stabile il debito, fattibile però solo aumentando la produttività dei fattori di produzione (capitale e lavoro), la qualità dei prodotti e l’export. E’ la via del NGeu e del PNRR.

Un’alternativa allo studio della BCE è uno scudo antispread

Il nuovo meccanismo potrebbe essere un ibrido tra il PEPP, che non prevedeva condizioni e l’OMT di Draghi che al contrario poneva alcune condizioni anche attraverso l’ESM. In altre parole, un piano non troppo stringente ma vincolato per esempio alle condizioni già in essere per il NGeu o che rispettino le condizioni della Commissione Europea. Sicuramente con un piano così congeniato sarebbe più agevole per la BCE proseguire lungo la normalizzazione monetaria. Certo occorre fare i conti con i falchi che spingeranno per condizionare l’intervento dello scudo solo a “reali” situazioni che mettano in pericolo il cammino dell’UE verso la stabilità finanziaria, escludendo interventi mirati a favore dei singoli Stati.

Ben sapendo che l’efficacia degli interventi di politica monetaria è sempre legata a doppio filo alla capacità di convincere i mercati che non conviene sfidare la Banca Centrale, il piano sembra configurarsi come una sorta di riedizione del “whatever it takes”, in cui la BCE rimarca con forza il proprio impegno nei confronti di tutti i paesi dell’Euro. La creazione di uno scudo che possa agire velocemente nelle situazioni di emergenza è una buona notizia per i mercati. E’ chiaro tuttavia che a breve dovranno essere definiti gli ambiti di intervento in modo che il messaggio di politica monetaria sia il più chiaro possibile e induca gli speculatori a desistere dal loro intento o quanto meno a limitarlo.

Altri e diversi sono comunque gli ambiti di intervento della BCE per dare liquidità al sistema, come per esempio il rifinanziamento a più lungo termine della terza serie OMRLT-III, in modo da non ostacolare la normale trasmissione della politica monetaria. Come già annunciato, il Consiglio si attende che le condizioni specifiche delle OMRLT-III cesseranno di essere applicate a giugno di quest’anno. Lo stesso valuterà inoltre l’adeguata calibrazione del sistema a due livelli per la remunerazione delle riserve, affinché la politica dei tassi di interesse reali negativi non limiti la capacità di intermediazione delle banche in un contesto di liquidità eccessiva.

Quindi con tutta questa potenza di fuoco ancora a disposizione delle banche centrali e dei governi, dove sarebbe meglio investire?

La risposta è nelle imprese maggiormente coinvolte dagli investimenti del NextGenerationEU e del PNRR che hanno difronte un’opportunità unica di sviluppo. Sono tutte quelle imprese che operano nel settore della digitalizzazione di prodotto ma anche di processo, della cyber security, della trasmissione di dati su rete fissa o mobile. Ma anche tutte le imprese che operano nella “rivoluzione verde”, da quelle locali a quelli nazionali, senza dimenticare tutte quelle che operano nel settore delle infrastrutture e della salute. Il discorso vale un po’ per tutte le Borse Europee, ma la parte del leone crediamo tocchi a Piazza Affari: per fare un esempio, nel solo settore della digitalizzazione all’Italia toccano, come abbiamo, visto 40 miliardi di euro, alla Spagna 24, alla Germania 12 e alla Francia 10.

A cura di Antonio Tognoli, Head of Research di Integrae Sim

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