Mercati, dollaro: la view di Schroders

Il mese scorso il governo russo ha saltato il pagamento di un Eurobond perché le sanzioni finanziarie non gli consentivano di onorare il suo debito. La Russia è riuscita a evitare il default effettuando il pagamento poco prima dello scadere del periodo di grazia di 30 giorni, utilizzando parte delle sue ormai limitate riserve di valuta estera.

In questo scenario, ecco di seguito la view sul dollaro di David Rees, Senior Emerging Markets Economist di Schroders.

Anche se la Russia aveva iniziato l’anno con riserve valutarie sufficienti a coprire dieci volte tutto il suo debito estero – sia pubblico che privato – le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dai suoi alleati hanno reso tali risorse inutili.

È probabile che alcuni gestori di riserve siano preoccupati di dover subire in futuro un destino simile a quello della Russia, con il peso del dollaro nelle riserve globali che si è notevolmente ridotto negli ultimi 20 anni.

La decisione degli Stati Uniti di congelare gli asset della Banca Centrale russa accelererà il recente trend di diversificazione delle riserve e segnerà la fine del dominio del dollaro come valuta di riserva globale? E se l’allontanamento dal dollaro dovesse avvenire, avrà implicazioni significative a lungo termine per i mercati finanziari globali?

Quali Paesi potrebbero voler abbandonare gli asset in dollari?

Probabilmente è più facile iniziare da quei Paesi che difficilmente abbandoneranno le loro riserve in dollari a seguito degli eventi recenti.

Ovviamente, anche se l’attenzione si è concentrata sugli Stati Uniti, sono state congelate anche le riserve russe denominate in euro, yen giapponesi, sterline britanniche, dollari canadesi e franchi svizzeri. Secondo i dati del Treasury International Capital (TIC), questi Paesi, insieme ad altri alleati come l’Australia, rappresentano circa la metà di tutte le disponibilità estere di titoli del Tesoro statunitense, per un valore complessivo di circa 3.500 miliardi di dollari.

Il quadro è più confuso nei mercati emergenti. Ad esempio, la Regione Amministrativa Speciale (SAR) di Hong Kong opera un currency board nei confronti del dollaro USA, il che significa che tutte le unità di dollari di Hong Kong devono essere sostenute da dollari USA. Finché la SAR di Hong Kong non deciderà di cambiare il modo in cui gestisce la propria valuta, non sarà in grado di diversificarsi dal dollaro USA.

Ci sono anche molti altri mercati emergenti alleati degli Stati Uniti e di altre nazioni del G7 che difficilmente si sentiranno minacciati dalle recenti azioni.

Tuttavia, qualcuno potrebbe essere più preoccupato. Ovviamente, la Cina è già impegnata in una guerra commerciale con gli Stati Uniti e le questioni di concorrenza strategica sul lungo termine difficilmente scompariranno.

Secondo i dati pubblicati dal FMI, nel 2020 la Cina era il più grande detentore di riserve valutarie al mondo, con un patrimonio ufficiale di poco inferiore ai 3.500 miliardi di dollari. In realtà, la cifra si avvicina ai 4.500 miliardi di dollari se si considerano gli asset esteri detenuti dalle banche statali. Secondo i dati del TIC, la Cina è anche il secondo maggior detentore straniero di titoli del Tesoro USA, con asset per circa 1.000 miliardi di dollari.

Non ci sono in realtà molte opzioni per la Cina, in ottica di diversificazione dal dollaro. Potrebbe smettere di accumulare titoli del Tesoro americano e degli alleati statunitensi con la stessa rapidità con cui lo ha fatto in passato, ma è improbabile che li elimini del tutto o che diversifichi in modo significativo verso altri asset.

Avrebbe senso per altri emergenti diversificare le proprie riserve?

Un’altra valuta da considerare è il renminbi. Sembra improbabile che i Paesi emergenti, a parte forse la Russia che non ha molta scelta, possano convertire tutte le riserve in renminbi. Il rischio che Pechino possa congelare arbitrariamente gli asset di riserva di una nazione a causa di un inasprimento delle relazioni bilaterali è invariato, se non superiore, e disporre di dollari continua a essere utile in tempi di crisi.

Tuttavia, oltre al timore di sanzioni, vi sono ragioni economiche più ortodosse per diversificare, dato che molti emergenti conducono grandi quantità di scambi commerciali con la Cina, spesso in deficit bilaterale. Se la Cina continuerà ad accettare un maggior numero di pagamenti per le esportazioni nella propria valuta, le banche centrali dei mercati emergenti (e non solo) potrebbero iniziare ad accumulare riserve in CNY. Ciò sarebbe anche coerente con il desiderio di Pechino di internazionalizzare il renminbi.

Non è facile quantificare l’impatto potenziale di tutto questo sui mercati. Se si esclude la Cina dai dati del TIC, ci sono 26 Paesi nell’elenco che abbiamo identificato come candidati a diversificare le loro riserve.

Questi Paesi detenevano complessivamente titoli del Tesoro USA per un valore medio di 1.100 miliardi di dollari a gennaio 2022, pari al 15% delle riserve estere.

È improbabile che questi Paesi abbandonino del tutto il dollaro, dato che probabilmente rimarrà l’asset di riserva più affidabile e liquido nel prossimo futuro. Ma sembra ragionevole pensare che potrebbero riallocare forse un quarto delle loro riserve, per un valore di circa 250 milioni di dollari.

Quali sono le implicazioni per il mercato dei Treasury USA?

Per quanto riguarda l’impatto sul mercato dei Treasury statunitensi, il vivace dibattito sull’impatto del Quantitative Tightening (QT) è probabilmente un buon punto di partenza.

Il presidente della Fed, Jerome Powell, ha recentemente dichiarato che si stima che 95 miliardi di dollari di QT equivalgano a un aumento di 25 pb del tasso target dei Fed funds. Secondo questa regola empirica, la diversificazione degli asset di riserva potrebbe aggiungere circa 65 pb ai rendimenti dei Treasury. Ma questo è probabilmente lo scenario peggiore, e vale la pena notare che altri membri del FOMC si aspettano che l’impatto del QT sia molto minore.

Il punto è che si tratta solo di un’operazione di facciata. Potrebbero esserci delle variazioni di prezzo marginali, ma probabilmente non sufficienti, a meno che la diversificazione dal dollaro non prenda davvero piede, soprattutto da parte della Cina e la storia ci insegna che questo richiede decenni.

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