Mercati: la doccia fredda è appena cominciata

Il piano della Fed per affrontare l’inflazione poggia su due ipotesi traballanti“. Ad affermarlo è Sonal Desai, Fixed Income Chief Investment Officer di Franklin Templeton , che di seguito illustra nel detaglio la view e il proprio outlook.

L’inflazione più elevata degli ultimi 40 anni pone enormi difficoltà alle autorità monetarie. Eppure la Federal Reserve (Fed) spera ancora di poterle affrontare con una semplice soluzione: portare il tasso di riferimento vicino al 3% e aspettare che l’inflazione ritorni verso il target del 2% al venir meno degli effetti degli shock negativi dell’offerta. Non c’è bisogno di attuare una brusca stretta monetaria come fece Paul Volcker. Non c’è bisogno di rischiare una recessione o di provocare un aumento significativo della disoccupazione.

Questa speranza si fonda su due ipotesi traballanti. In primo luogo, la Fed è convinta che il tasso d’interesse neutrale si colloca tra il 2% e il 3%. (Si definisce tasso neutrale il tasso al quale la politica monetaria non sarebbe né espansiva né restrittiva, con l’inflazione pari all’obiettivo del 2% della Fed e l’economia in condizioni di piena occupazione) Ciò significa che in termini reali – cioè al netto dell’inflazione – il tasso neutrale è pari allo 0-1%.

Tuttavia, questa ipotesi potrebbe rivelarsi infondata. Gli economisti Thomas Laubach e John C. Williams hanno stimato che il tasso d’interesse neutrale reale si è attestato in media intorno al 2,5% durante gli anni 1990 e 2000, per poi scendere in un intervallo compreso tra lo 0 e l’1% dopo la crisi finanziaria del 2007-2009. Questa diminuzione potrebbe essere dovuta a un calo della crescita della produttività negli Stati Uniti e ad un aumento della domanda di attività finanziarie a basso rischio. La crescita della produttività, tuttavia, ha ripreso quota, portandosi su un livello medio del 2,4% nel periodo 2019-21, pari a quello del 1991-2007.

Il quantitative easing, come ha ammesso la stessa Fed, sta per terminare. Questo riduce la domanda di asset relativamente sicuri. Di conseguenza, il tasso d’interesse neutrale reale potrebbe essere nettamente più alto di quanto ipotizzato dalla Fed, più vicino a un intervallo del 2-3% che dello 0-1%. Una volta che l’inflazione sarà riscesa al 2%, il tasso d’interesse neutrale nominale dovrebbe collocarsi in una forbice del 4-5%, non del 2-3% come quella a cui punta la Fed (e l’inflazione è ancora lontana dal 2%). In tal caso, l’assetto di politica monetaria a lungo termine della Fed sarebbe ancora espansivo. L’attuale problema dell’inflazione è in parte imputabile al fatto che la Fed ha mantenuto una politica monetaria troppo espansiva per troppo tempo. Con un accomodamento monetario di questa portata, è più probabile che l’inflazione rimanga stabilmente elevata anziché riportarsi verso il target.

La seconda ipotesi traballante della Fed postula che le aspettative d’inflazione siano ancora ben ancorate e che non vi siano segnali di una spirale prezzi-salari. In questo scenario, la crescita dei prezzi tornerebbe a un ritmo “normale” una volta che gli shock esogeni si sono dissipati. Molte prove, tuttavia, puntano già nella direzione opposta. Anche se non hanno tenuto il passo con l’aumento dell’inflazione, i salari fanno registrare una crescita del 4-5%, la più sostenuta degli ultimi 40 anni. Le imprese si confrontano con persistenti carenze di personale in un mercato del lavoro estremamente teso; i neoassunti possono assicurarsi così premi salariali consistenti. Le aziende, a loro volta, rispondono all’aumento dei costi del lavoro e dei fattori produttivi esercitando il loro pricing power in modo più aggressivo.

Le indagini indicano sempre più spesso che le aspettative d’inflazione sono aumentate. I consumatori e le imprese riconoscono che la recente inflazione è stata determinata da shock temporanei dell’offerta e non si aspettano che la crescita dei prezzi rimanga all’8-9%; tuttavia, su un orizzonte temporale di tre anni, ritengono più probabile che l’inflazione si collochi intorno al 4% anziché al 2%. Le aspettative d’inflazione, in altre parole, si sono già attestate su un livello più alto. Quanto più a lungo l’inflazione rimarrà elevata, tanto più queste aspettative tenderanno a radicarsi e ad autoalimentarsi. La scomparsa degli shock dell’offerta, quindi, non sarà sufficiente a riportare l’inflazione al 2%.

Se queste premesse sono corrette, la credibilità della Fed potrebbe essere pregiudicata dal suo attuale orientamento e dai messaggi trasmessi ai mercati, con possibili ricadute sulle aspettative d’inflazione. I mercati finanziari si aspettano già un ciclo di rialzi dei tassi moderato e breve. Nelle loro previsioni, non appena la crescita economica perderà slancio, la Fed attuerà velocemente un nuovo allentamento, seguendo il copione degli ultimi decenni. Questo approccio è parso forse relativamente poco costoso finché l’inflazione è rimasta contenuta. Adesso non lo è più. La Fed ha mantenuto una politica troppo accomodante mentre l’economia statunitense era in ripresa dai lockdown legati al COVID-19 ed era sostenuta da un ingente stimolo fiscale.

La Fed deve attuare una stretta decisa sia perché il tasso d’interesse di equilibrio è molto probabilmente più alto di quanto non pensi, sia perché il tasso di riferimento dovrà salire oltre questo livello per riportare l’inflazione e le relative aspettative in linea con il target. La Fed deve spiegare apertamente tutto questo e ripristinare la propria credibilità spingendo la politica monetaria verso un assetto veramente restrittivo. In caso contrario, l’inflazione rimarrà elevata e le aspettative d’inflazione saliranno ulteriormente, sicché l’unica strada percorribile per assicurare la stabilità dei prezzi sarebbe quella di provocare una profonda recessione.

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