Investimenti, Italia: se il risparmio è improduttivo non fa girare l’economia

In seguito alla ampia e proficua discussione fra tutti gli attori del sistema di come portare le imprese italiane in Borsa (vedi Libro VerdeLa competitività dei mercati finanziari italiani a supporto della crescita”), a breve dovrebbe esserci una schiarita.

Perché il listino di Piazza Affari non rappresenta l’economia Italiana?

Partiamo dal risparmio. Come indicano i dati della Banca d’Italia ci sono circa 1.500 miliardi di euro sui conti correnti delle banche (erano 1.100 a fine 2018, prima della pandemia). Per dare un termine di paragone, pensiamo che il PIL a fine 2021 era 1.781 miliardi di euro. Un parte è investita dalla banche stesse (dando credito alle imprese), ma stimiamo che oltre 400-500 miliardi siano sostanzialmente depositati in attesa di eventi e quindi non investiti. Sono quindi improduttivi.

Se rimangono improduttivi non fanno “girare l’economia”, non creano posti di lavoro, non creano ricchezza e non fanno crescere la nazione e il reddito personale (tutti siamo più poveri). L’Italia, come noto, è uno dei paesi con maggiore propensione di risparmio al mondo pari all’11% e nonostante risulti in leggera flessione rispetto al boom sperimentato durante la pandemia, rimane tra i maggiori d’Europa. Va detto che l’aumento del risparmio non è un fenomeno atipico durante una crisi, ma l’entità dell’incremento sperimentata durante la pandemia è insolita ed è in parte dovuta all’accumulo di fondi quale effetto delle restrizioni imposte sulle attività di spesa (quello che si chiama il risparmio forzato).

Se il risparmio è improduttivo non fa girare l’economia

Risparmio vuol dire rinuncia a consumi attuali per consumi futuri. Già, ma futuri quando. Se il risparmio continua a crescere (come dicevamo, pure negli ultimi due anni con il Covid) si rinunciare a consumare oggi per consumare domani. Ma con consumi fermi oggi, le imprese sono costrette a produrre meno, a ridurre i costi (in primis quelli del lavoro), e/o ad abbassare la qualità dei prodotti e ridurre gli investimenti per mantenere profitti adeguati ad assicurare la propria economia sopravvivenza. Nel frattempo però il resto del mondo corre e investe. Tempo una generazione e sei fuori dal mercato. E’ proprio quello che sta succedendo al nostro Paese.

Perché gli italiani non investono nelle proprie aziende?

Le ragioni sono diverse: da quelle storiche (i rendimenti elevati dei titoli di Stato negli anni 70-80 hanno creato quella che si chiama illusione monetaria: ti sembra di essere più ricco, ma l’inflazione si mangia tutto il rendimento), fino ad arrivare alla scarsa preparazione finanziaria (la minore al mondo) degli investitori. Ma anche il fatto che gli Italiani non si fidano delle proprie imprese e dello scenario socio – economico – politico del proprio Paese. Ma occorre rifarsi un po’ alla storia per sapere che per esempio la Germania storicamente è fallita tre volte, le cui ultime due sono state nel 1932 – la repubblica di Weimar – e nel 1953 dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale, l’Italia mai. Ha sempre onorato i propri debiti.

A differenza degli altri paesi Europei, la Borsa Italiana non rappresenta per nulla la forza della nostra economia. Sia perché tante imprese non scelgono la via della quotazione per reperire risorse finanziarie per fare gli investimenti necessari alla crescita, sia perché gli imprenditori sono ancora troppo arroccati su posizioni campanilistiche e padronali, sia perché il sistema finanziario è ancora troppo bancocentrico (e da qui arriva una parte della sua fragilità). Diversi sono stati gli sforzi legislativi per favorire un’economia di mercato, ma tutti poco organici. Non si è mai messa seriamente mano all’intera disciplina che governa il risparmio (tutelato dalla Costituzione nell’art. 47) e gli investimenti, con il risultato che imprese e soprattutto investitori si sono allontanati e si allontano tutt’ora dalla Borsa Italiana (tante società infatti si quota sui mercati esteri): secondo uno studio della Banca d’Italia tra il 2007 e il 2019 il 60% delle OPA ha riguardato il delisting (il 90% nel 2019).

Occorre quindi uno sforzo comune per riavvicinare il mondo del risparmio e quello dell’investimento (se non ora quando), perché con le sole forze messe in campo dall’Europa (Next Generation EU) e dal Governo (il PNRR) il paese, che ricordiamolo ha un rapporto debito/PIL intorno al 150%, difficilmente riuscirà a fare tutti gli investimenti necessari per raggiungere la crescita potenziale e sostenibile del PIL, che si aggira intorno al 2-2,5%.

Siamo ottimisti, nonostante abbia l’impressione che la campagna elettorale con tutto quello che si porta dietro, sia già partita. Negli ultimi 18 mesi abbiamo visto l’Italia ritrovare la credibilità internazionale perduta e abbiamo visto gli investimenti esteri tornare nel nostro paese, sia in Borsa sia come private equity. La strada da fare è però ancora lunga, ma la direzione è quella giusta. Dobbiamo smuovere la massa di denaro dormiente e favorire un flusso di investimenti privati all’economia reale, per esempio costituendo un “Fondo Sovrano” misto pubblico/privato o ancora favorendo la costituzione di campioni mondiali in diversi settori produttivi (sul modello francese per intenderci) e rendere più snella l’intera procedura di quotazione (come dicevamo le novità dovrebbero arrivare a breve). I tempi e i modi li conosciamo, le risorse e la fantasia non ci mancano. Occorre la volontà di farlo.

A cura di Antonio Tognoli, responsabile macro analisi e comunicazione di CFO SIM

 

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