Avvistato in ritardo l’iceberg dell’inflazione irreversibile, capitan Powell ha fatto suonare le sirene, frenato e contemporaneamente virato bruscamente il transatlantico, producendo rollio, beccheggio e imbardata. C’è stato panico nei saloni dei passeggeri (quelli dei mercati) ma sotto la linea di galleggiamento la sala macchine (quella dell’economia reale) è rimasta più stabile.
La manovra finora sembra riuscita, ma è presto per dichiarare il cessato allarme. L’iceberg ha una parte ben visibile sopra l’acqua, quella dell’inflazione da materie prime, e una parte sommersa, quella dell’inflazione salariale, più difficile da calcolare e prevedere.
L’inflazione da materie prime appare domata, ma è difficile riconciliare i prezzi, scesi in misura rilevante, con l’offerta e la domanda finale rimaste finora sostanzialmente stabili. Questo vale in particolare per l’energia. Qui i prezzi scontano una discesa della domanda che in questi giorni si è manifestata solo in una riduzione delle scorte dei distributori, ma non nell’utilizzo finale. L’offerta, dal canto suo, fatica a crescere e appare più alta di quello che è realmente perché gli Stati Uniti continuano a liquidare le loro scorte strategiche di greggio, che a questo ritmo saranno azzerate in primavera.
L’inflazione salariale, la parte meno visibile ma più pericolosa dell’iceberg, è più difficile da domare perché è insidiosa. Dipende molto dalla psicologia. Se le imprese si sentono forti, assumono di più e concedono più facilmente aumenti salariali. Lo stesso accade dal lato della forza lavoro, che si sente forte perché ci sono pochi disoccupati in giro a fare concorrenza e ha buon gioco a chiedere, quanto meno, di adeguare le retribuzioni all’inflazione.
Per cambiare la psicologia delle imprese e del lavoro non c’è niente di meglio che gelare le aspettative di crescita, da una parte alzando i tassi di molto (e facendolo in fretta) e dall’altra spaccando il giocattolo dei mercati finanziari e inducendo un bear market obbligazionario e azionario.
Adesso va però evitato il secondo iceberg, quello della recessione. Se la prima parte della manovra (quella dello sconquasso e della paura) è quasi completata (il rialzo di settembre, già scontato dai mercati, potrebbe essere l’ultimo), ora inizia la fase degli aggiustamenti di rotta, del lavoro di precisione. Va evitato qualsiasi ritorno di ottimismo, perché il fuoco dell’inflazione cova ancora sotto la cenere, ma va anche contenuto l’effetto depressivo sull’economia reale del bear market degli asset finanziari.
Stabilizzare le Borse e lasciare lo spazio per un certo recupero di qui a fine anno può evitare che la perdita di slancio dei consumi e degli investimenti si trasformi in una recessione che faccia troppi danni.
Siamo entrati nella fase della navigazione a vista. La guidance da parte delle banche centrali, ovvero il piano di rotta, è di fatto abbandonata.
Ora siamo nel limbo di un’economia globale che è ancora sopra la linea di galleggiamento e di un’inflazione che inizia a scendere. Siamo ancora vivi e la retorica delle banche centrali si è fatta leggermente meno aspra. Che i mercati provino a imboccare la strada del recupero è comprensibile. C’è anche una situazione tecnica favorevole, sia di sentiment sia di posizionamento. Alcuni gestori che si sono fatti molto male nella prima parte dell’anno tenteranno ora il tutto per tutto per recuperare ed è più probabile che si mettano aggressivamente al rialzo piuttosto che al ribasso.
Un certo recupero in vista delle elezioni di novembre sarà poi visto con grande favore dall’amministrazione Biden, che rischia di perdere il Congresso, e non sarà troppo ostacolato dalla Fed.
Qualcuno sarà tentato di affermare che, se mai ci sarà recessione, questa sarà circoscritta ai prossimi sei-nove mesi e che il recupero azionario in corso anticipa un nuovo bull market per l’anno prossimo, quando, già in primavera, la Fed inizierà a tagliare i tassi.
Tutte le opinioni sono legittime, naturalmente, e non c’è dubbio che già adesso ci sono opportunità interessanti sui mercati. Detto questo, non è da escludere che la navigazione tra i due iceberg dell’inflazione e della recessione sia più lunga e accidentata di quanto si sconti in questo momento e che il 2023 sia un anno di purgatorio per l’economia globale e per i mercati.
Oggi lo si dice di meno, ma fino a tempi recenti si usava ripetere che la politica monetaria dispiega i suoi effetti in 12-18 mesi. Il rialzo dei tassi di settembre, ammesso che sia l’ultimo, continuerà a produrre effetti restrittivi fino alla fine dell’anno prossimo.
Si può quindi dire che la vera sfida, per le banche centrali, per l’economia e per i mercati, sarà il 2023. È stato facile, finora, alzare i tassi con un’economia che ha ancora una forza inerziale. Con un’economia stagnante, muoversi tra inflazione e recessione sarà più difficile.
Sulla base di queste considerazioni sembra ragionevole mantenere un atteggiamento tattico cautamente costruttivo per i prossimi tre (e forse sei) mesi, ma è ancora presto per abbandonare una prudenza strategica.
Per cavalcare questa fase tattica di recupero il modo più rapido è quello di riprendere in mano i settori più caduti in disgrazia durante il bear market, a partire dalla tecnologia.
Per chi vorrà preferire un’impostazione strategica, il suggerimento è quello di provare a immaginare i nuovi leader dei prossimi anni. Le società con un ampio flusso di cassa, pricing power e bassi multipli potrebbero essere buoni candidati per questa nuova leadership.
A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rosso e Il Nero)