Investimenti: attenzione al Washington Consensus

In un tempo non così lontano, diciamo fino a 15 anni fa, quando si osservavano le politiche economiche di molti paesi in difficoltà di quello che per un certo periodo è stato chiamato il Sud del mondo, si notavano alcune costanti che erano regolarmente oggetto di severa riprovazione da parte degli economisti occidentali allineati su quello che si usava definire il Washington Consensus.

Tra queste costanti la più frequente era la monetizzazione del disavanzo pubblico da parte della banca centrale. Classi politiche deboli e spesso corrotte non avevano né la volontà né la forza di aumentare le tasse e tantomeno quella di ridurre la spesa pubblica. Indebitarsi diventava quindi la via d’uscita. Lo si faceva con l’estero negli anni buoni, quelli in cui il mercato obbligazionario affamato di rendimento comprava di tutto. Negli altri anni si provava a emettere debito sul mercato interno, che però era piccolo anche perché chi aveva soldi li teneva all’estero. Alla fine si ricorreva alla banca centrale che creava moneta per sottoscrivere i titoli pubblici. Ovviamente questo creava inflazione e, nel tempo, svalutazione del cambio.

La seconda costante che si riscontrava in questi Paesi e che veniva condannata ancora più risolutamente dal nostro consenso (e in particolare dal Fondo Monetario) era rappresentata dagli ingenti sussidi che i Governi concedevano per tenere bloccato il prezzo del pane, della benzina, del gas e della luce. Chi ogni tanto decideva di sbloccare i prezzi, in genere su pressione del Fondo Monetario, rischiava seriamente di essere travolto da rivolte popolari, come accadde tra l’altro con le primavere arabe. Non importa, dicevamo noi, dovete farlo lo stesso. Il populismo dei sussidi impedisce la necessaria distruzione di domanda e porta solo sprechi e dissesto delle finanze pubbliche.

È passato qualche anno e queste politiche, invece di essere abbandonate dai Paesi del Sud del mondo, sono adottate il misura crescente anche dai paesi del Nord. La creazione e monetizzazione del debito ha assunto proporzioni grandiose in tutti i paesi occidentali per tutto il 2020 e il 2021.

Alla monetizzazione abbiamo aggiunto anche la repressione finanziaria e il controllo di curva. Nei paesi del Sud tenere i tassi d’interesse sotto l’inflazione è complicato, perché richiede il controllo dei movimenti di capitale, che viene comunque aggirato. Da noi è molto più facile. Certamente i capitali si spostano da chi reprime di più (il Giappone) a chi reprime di meno (gli Stati Uniti), ma una volta approdati in America lì devono restare, perché non possono fuggire su Marte.

Ora stiamo cominciando, almeno in Europa, ad adottare anche noi la politica dei prezzi bloccati grazie a sussidi pubblici su larga scala sull’energia. Il Regno Unito, che aveva provato a trasmettere agli utenti l’aumento integrale dei costi e si è ritrovato con l’inflazione più alta di tutti e un inizio di rivolta popolare sotto forma di sciopero delle bollette, sta facendo marcia indietro e promette un tetto per i costi delle famiglie. In questo modo, invece di ridurre i consumi, finisce con il rischiare di incentivarli.

Bloccare i prezzi e sussidiare i consumi, si dirà, ha però anche effetti positivi, in particolare quello di frenare l’inflazione. È vero, come è sempre stato vero anche nei paesi del Sud. La loro esperienza è ricca di esempi di frenate anche severe dei prezzi e non mancano certo fasi di comportamenti virtuosi del sovrano. Al fondo, tuttavia, resta in questi Paesi una perdita strutturale di ancoraggio fiscale e monetario che determina un’oscillazione continua tra rigore e lassismo.

Il rischio che si delinea per il Nord non è dunque necessariamente quello dell’inflazione permanente, ma quello dell’instabilità strutturale.

Si possono legittimamente disegnare due scenari

Nel primo lo shock energetico per l’Europa è una tantum. Il costo del megawattora aumenta di dieci volte e probabilmente non scenderà più per qualche anno, ma questo non significa che continuerà a crescere anno dopo anno. L’inflazione può dunque azzerarsi.

Nel secondo scenario, più probabile, l’inflazione a un certo punto (che in America è abbastanza vicino) si azzera, ma non a lungo, perché i governi continuano strutturalmente ad alimentarla spendendo per il riarmo, i sussidi e la transizione energetica.

Quando si ha una politica monetaria espansiva e una politica fiscale prudente, come è stato nel decennio scorso, si ha inflazione degli asset finanziari. Quando al contrario si ha una politica fiscale espansiva compensata da una politica monetaria restrittiva, come oggi, l’inflazione si trasferisce sui beni di consumo, a meno che la politica monetaria non sia così restrittiva da causare una recessione.

L’instabilità dei quarant’anni di deflazione che ci siamo lasciati alle spalle è stata dunque circoscritta agli asset finanziari. Quella che abbiamo cominciato a vivere dal 2020 è e sarà soprattutto l’instabilità dei cicli economici, che saranno più brevi e volatili.

In questo momento ci troviamo a distanza di qualche mese dall’azzeramento della crescita e, almeno in America, anche da quello dell’inflazione. Se durante questa fase non facciamo qualcosa per aumentare l’offerta, in particolare nell’energia, non appena ci riprenderemo riprenderà anche l’inflazione.

A breve termine, nei prossimi tre-quattro mesi, ci troveremo però in una fase relativamente tranquilla in cui la crescita americana accelererà mentre l’inflazione ha già iniziato a rallentare in modo significativo. Questo compenserà, per i mercati, i problemi dell’Europa e dell’Asia. Al di là della vistosa volatilità spicciola, quindi, il livello di 4.000 punti sull’S&P 500 rimarrà il perno su cui si ruoterà, con qualche tentativo di fare anche di meglio. La Fed ne approfitterà per portare i tassi al 4% e la Bce li alzerà al 2%.

Più avanti le cose si complicheranno, ma non è ancora detto che nel 2023 avremo per forza una recessione severa.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rfosso e Il Nero)

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