Mercati: la Fed alza i tassi ma Powell getta acqua sul fuoco

Come era nelle attese, ieri la Fed ha aumentato i tassi di 75 punti base, quarto rialzo consecutivo di questa entità, portandoli nella forbice fra 3,75% e 4% (mai così in alto dal 2008). Nel comunicato ufficiale, i componenti del direttivo spiegano che terranno conto degli effetti della politica restrittiva sull’economia per i futuri rialzi.

L’annuncio è stato interpretato dai mercati come un segnale che la Fed rallenterà l’intensità degli aumenti. La comunicazione è stata accolta senza proteste dalla Casa Bianca (ricordiamo che fra cinque giorni ci saranno le elezioni di midterm), limitandosi a osservare che l’aumento dei tassi sui mutui ipotecari sta facendo rallentare la domanda nel mercato immobiliare, contribuendo a ridurre il rialzo dei prezzi delle abitazioni, in linea con quanto voluto dall’amministrazione Usa.

Goldman Sachs stima che la Fed alzerà ulteriormente i tassi 50 punti in dicembre e 25 a febbraio e marzo, quando il costo del denaro toccherà il 5% (livello più alto di quanto stimato in precedenza). Se così sarà, la recessione Usa sarebbe inevitabile e potrebbe essere più profonda e lunga di quello che prevedono al momento i mercati, visto il contesto di profonda incertezza globale fra le tensioni geopolitiche e la guerra in Ucraina che non aiuta i consumi. Non siamo del tutto d’accordo con questa visione. Vedremo.

Quello che ha sempre tenuto a sottolineare Powell e anche ieri ha ribadito, è che l’intensità del rialzo dei tassi dipenderà dai dati. Tenuto conto della flessione del costo dell’energia (che comunque ha un impatto anche sull’inflazione USA), della distensione delle catene di approvvigionamento e del manifestarsi dei primi effetti degli aumenti dei tassi (che come noto richiedono 6-9 mesi), è possibile che nei prossimi mesi l’inflazione possa scendere in modo più convincente di quanto visto fino ad ora. E, come sappiamo, due sono i dati dell’economia che la Fed monitora più di altri: la disoccupazione e l’inflazione, soprattutto quella core. La maggiore intensità della discesa inflattiva, l’indebolimento del mercato del lavoro e la possibile recessione potrebbero spingere Powell ad essere meno falco. Il che non significa che abbia finito di alzare i tassi.

Recessione che comunque al momento ancora non si vede, visto che dopo due trimestri negativi, il terzo ha fatto registrare una crescita annualizzata del 2,6%. Ma una rondine non fa primavera. I consumi delle famiglie infatti, nonostante la crescita, hanno evidenziato una minore spinta rispetto al trimestre precedente, segnale che la riduzione del potere d’acquisto è reale e comincia a farsi sentire. Stesso discorso per gli investimenti, che risentono molto degli aumenti dei tassi di interesse che rendono il credito più costoso, scesi dell’8,5% e addirittura del 26,4% quelli relativi agli investimenti residenziali.

Il contributo più forte alla crescita è venuto dalle esportazioni, nonostante la forza del dollaro, che sono cresciute del 14,4%, mentre le importazioni sono diminuite del 6,9%. Segnale questo che dice che siamo davanti ad una economia USA il cui dinamismo interno è in via di esaurimento e che sta approfittando delle esportazioni per garantire la crescita.

Da capire come giocheranno nei prossimi mesi sull’export la forza del dollaro, la debolezza dell’economia Europea e la lenta ma inesorabile conversione dell’economia cinese verso i consumi interni. Riassumendo, gli Usa potrebbero comunque andare verso una recessione breve e poco profonda.

Quali sono i rischi?

Il primo è quello di fare i conti senza l’oste (Putin). Difficile prevedere la fine del conflitto, anche se ci sono segnali che i due contendenti (l’altro è Biden) potrebbero sedersi al tavolo e trattare la fine delle ostilità, nonostante gli attacchi verbali. Secondo, l’inflazione, la cui lenta flessione evidenzia che orami si è ben radicata nell’economia e che quindi richiederà più tempo per avvicinarsi all’obiettivo del 2%, facendo più danni di quelli prevedibili al momento. Terzo, l’ulteriore deterioramento della qualità degli assets finanziari che durante la pandemia hanno beneficiato di misure temporanee e che appaiono ora particolarmente vulnerabili al peggioramento del contesto economico.

I rischi di solito si portano dietro un aumento della volatilità, che occorre gestire. Come abbiamo più volte scritto la volatilità se ben gestita non è per forza un male ma può invece favorire una gestione attiva. Questo vuol dire mantenere un contatto costante con le società in portafoglio e adottare un approccio bottom up che vada a privilegiare lo stock picking.

Le caratteristiche da tenere in considerazione e che dovrebbero guidare gli investimenti nelle fasi di incertezza economica sono: livelli bassi di indebitamento; marginalità sostenibile e vantaggi competitivi chiari; controllo delle catene di fornitura (preferibilmente corte). Caratteristiche che per le piccole e medie imprese è più semplice rispettare, grazie alla maggiore agilità e flessibilità operativa e decisionale.

A cura di Antonio Tognoli, responsabile macro analisi e comunicazione di Cfo Sim

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