Asset allocation: attenzione al possibile cedimento del dollaro a fine ciclo

“L’indice della tecnologia americana, il Nasdaq, che ha guidato la bolla speculativa delle borse, del Private Equity e del credito speculativo a supporto di IPO e Venture Capital, ha recentemente segnalato che il boom dei profitti è finito. Tuttavia, molti investitori sono ancora convinti che se la FED dovesse fermare il rialzo dei tassi il trend di rialzo potrebbe riprendere come prima, l’economia eviterebbe una recessione e tutto quello che è accaduto in questi mesi del 2022 potrebbe essere archiviato come un fenomeno transitorio”. Ad affermarlo è Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy Fund di Lemanik, che di seguito illustra nel dettaglio la view,

Uno studio pubblicato dal governo tedesco sulle previsioni di crescita per il 2023 evidenzia che l’economia sarà in recessione, ma l’inflazione salirà ancora e rimarrà sopra le due cifre per tutto l’anno.

Tutto questo contrasta platealmente con le previsioni delle case d’investimento, che invece prevedono un imminente picco dell’inflazione a fine anno e un ritorno a politiche monetarie espansive dalla metà del prossimo anno. Se le previsioni del governo tedesco fossero corrette, oltre ad essere in netto contrasto con le aspettative dei mercati, confermerebbero che le politiche monetarie difficilmente potrebbero tornare espansive e i tassi rimarrebbero vicino ai massimi di periodo per molto tempo. A questo punto, i mercati finanziari dovrebbero metabolizzare un mondo molto diverso rispetto a quello degli ultimi 14 anni, con i tassi strutturali a breve termine al 4-5% in USA e al 3-4% in Europa.

Ma a parte i meccanismi di ricalcolo delle valutazioni delle borse in base a tassi più alti, ci dobbiamo chiedere quanto tempo l’economia reale impiegherà ad adeguarsi a questi nuovi parametri di costo del debito, che difficilmente tornerà ai livelli passati, salvo una devastante crisi finanziaria ed economica.

Energia e costo del denaro sono i motori del sistema, dato che impattano sui costi di produzione, sul livello di break even delle aziende e sul costo del finanziamento. Se il livello di break even si sposta al rialzo in modo significativo, per compensare puoi solo fare due cose: aumentare produzione e incrementare le vendite oppure ridurre i costi per abbassare il break even point. Nel primo caso devi avere un’economia reale che ti consente di farlo, nel secondo caso imprimi una contrazione ulteriore del PIL. Come ho già più volte sottolineato in queste note mensili, le politiche monetarie degli ultimi 15 anni hanno gettato le basi per alta instabilità economica e finanziaria a termine. Abbiamo costruito un sistema adeguato a vivere in un contesto di tassi a zero, bassa inflazione, bassa crescita salariale e domanda finanziata dal debito. Ora siamo entrati in uno scenario di alta inflazione, crescita salariale, tassi in rialzo e crisi della domanda finanziata dal debito (oggi i tassi d’interesse sul credito al consumo USA sono al 22%).

Dopo la pandemia, per impedire il collasso del sistema, abbiamo sostituito la domanda finanziata dal debito con la domanda finanziata dai sussidi statali (Pay Check, bonus e aiuti di Stato), i consumi americani sono ripartiti grazie a interventi una tantum di generosa erogazione di sussidi e moratoria sui debiti non ripagabili. Ovviamente non è possibile prolungare all’infinito i sussidi al reddito, gli aiuti di Stato e la moratoria sui debiti non ripagabili. Appena si ferma il supporto statale, l’economia cade in recessione, ed è quello che sta accadendo adesso. Il problema di base è che a partire dal 2008, dopo la crisi dei subprime, il sistema è ripartito esattamente dallo stesso meccanismo che aveva provocato la crisi: debito per finanziare la domanda. Il sistema finanziario che aveva finanziato la domanda di Real Estate è passato a finanziare la domanda di consumi interni, che sono cresciuti dal 65% al 75% del PIL USA. Il 20% di tale domanda dipende solo da debito e non da crescita dei redditi, quindi il 15% del PIL USA dipende dal credito al consumo (Subprime e non).

I consumi americani sono diventati talmente importanti da rappresentare il 18% del PIL mondiale alla fine del 2019, quando l’intera economia della Cina è il 17% del PIL mondiale e quella della Germania il 6% (tanto per dare un’idea). La domanda finanziata ha gettato le basi per il grande boom immobiliare del 2004/2007 e, nell’ultimo ciclo, per il grande boom dei consumi interni. Il debito estero degli Stati Uniti è passato dal 45% del PIL a fine 2007 al 90% del PIL alla vigilia della crisi da Covid. Questa è la dimostrazione che siamo ripartiti esattamente dal modello che ha rischiato di farci fallire nel 2008. A questo punto è utile fare alcune riflessioni sul modello di crescita utilizzato finora e chiedersi se è possibile ripartire ancora da li. Il problema principale di un modello economico basato sul debito che finanzia la domanda (rispetto a quello basato sulla crescita dei redditi), è che non può permettersi il deleverage, dato che il motore della crescita è supportato dal debito e non dal reddito. Il modello di sviluppo, per mantenersi in equilibrio, necessita di una costante crescita dell’indebitamento, che consente ai consumatori di acquistare beni e servizi che non possono permettersi con il proprio reddito reale. Per questo motivo, la crescita del PIL può essere ottenuta prevalentemente grazie ad un crescente indebitamento, che però non può mai fermarsi. Il sistema innesca un elevato grado di sviluppo finanziario, inventando strumenti di debito speculativo finalizzati a fornire credito a tutti i segmenti dell’economia (MBS, CLO, Leverage Loans, Private Credit, ecc). Quando il modello va in crisi, l’unico meccanismo d’intervento sono i “bailout” o salvataggi a carico del bilancio pubblico, mentre la Banca Centrale è obbligata ad intervenire con il QE per impedire un deleverage che il sistema non potrebbe reggere. Il ruolo delle banche d’investimento si modifica: da consulenti d’investimento diventano i motori della raccolta di denaro da canalizzare nel sistema per sostenere il leverage; questo rende il modello estremamente propenso alle creazione di bolle finanziarie (Real Estate, Borsa, Credito).

Le previsioni sugli scenari futuri elaborate da tali intermediari devono quindi essere sempre positive, per non interrompere i flussi di capitale necessari a sostenere il leverage e indurre i risparmiatori a non vendere. Dal momento che un sistema di crescita basato sul debito richiede politiche monetarie sempre espansive, le Banche Centrali perdono lentamente la loro indipendenza. Questo è il principale motivo per il quale oggi assistiamo ad una crisi di credibilità delle Banche Centrali e ad una totale confusione sulle strategie di politica monetaria, dove la lotta all’inflazione appare più teorica che effettiva, dato che nessuna Banca Centrale è in grado di ridurre il bilancio o portare i tassi reali in territorio positivo. Il collasso del modello “debt driven” non viene innescato da un cambiamento delle politiche che lo sostengono, ma quando, per vari motivi: 1) il sistema privato non può più, o non riesce più, ad aumentare il suo indebitamento, che è vitale per il sostentamento del meccanismo di crescita, 2) il reddito reale perde sempre più potere d’acquisto che il nuovo debito non riesce più a compensare, 3) eventuali fattori esogeni (inflazione o shock di offerta e domanda) non possono essere efficacemente contrastati da vere politiche monetarie o fiscali che rischiano di compromettere leverage e domanda finanziata. Allo stato attuale mi sembra che i punti 1, 2 e 3 siano già tutti presenti nel sistema.

A questo punto è altamente probabile che il paradigma sia completamente cambiato e nulla sarà più come prima.

Mi aspetto quindi un lungo bear market e una lunga fase di deleverage che avrà un duraturo impatto sulla crescita dell’economia.

Le uniche politiche efficaci per sostenere il ciclo saranno solo quelle fiscali, dato che quelle monetarie non avranno più lo stesso effetto di prima, poichè il sistema, oberato da un eccesso di debito, è esposto ad una balance sheet recession come già accaduto in Giappone negli anni 90. Il cedimento del Dollaro costituirà l’ultimo capitolo di questa fase complicata ed avverrà in concomitanza con una probabile recessione USA nel 2023, o quando la FED dovrà necessariamente prendere atto che una Debt Driven Economy non regge i tassi necessari a contrastare l’inflazione in corso. Per ripartire si dovrebbe agire su un rilancio dei redditi reali ma, in un contesto inflazionistico, tale strategia rischia di creare ulteriori problemi. In realtà, negli ultimi 15 anni abbiamo implementato politiche di QE per reflazionare l’economia quando sarebbe bastato rivalutare i redditi reali per farlo. Il risultato è che queste politiche hanno solo creato bolle speculative ed un eccesso di debito nel sistema. La crisi delle Banche Centrali (BoE, BoJ, FED e ECB), che alzano i tassi ma stampano moneta, evidenzia la fine di un esperimento fallimentare implementato senza mai pensare ad una exit strategy, proprio perché il modello fa perdere l’indipendenza dei policy maker, che diventano schiavi delle bolle che hanno alimentato.

I tentativi di sostenere le borse con le tattiche di “short squeeze”, che servono ad innescare rally puramente tecnici dovuti a ricoperture, non fanno che rimandare la vera liquidazione delle posizioni ed evidenziano continui meccanismi di manipolazione. Nel frattempo, le posizioni rialziste degli investitori rimangono vicine ai massimi storici, in attesa di un imminente cedimento della FED e un ritorno al QE per evitare una crisi.

Si è così innescato un braccio di ferro tra mercati e FED che rischia di finire male per tutti e due. Se dovessero vincere i mercati, ripristinando condizioni finanziarie espansive tramite restringimento degli spreads e ritorno al credito speculativo, l’inflazione non si fermerebbe e ripartirebbe al rialzo, costringendo la FED a rafforzare politiche monetarie anticicliche. La lotta all’inflazione è dunque complicata dal fatto che i mercati finanziari possono innescare condizioni finanziarie meno restrittive di quelle che vorrebbe avere la Banca Centrale. Non credo che la FED possa permettersi di correre questo rischio, e per questo motivo credo che le dichiarazioni saranno sempre restrittive in caso di mercati positivi e meno restrittive in caso di mercati negativi. La view sui mercati azionari rimane dunque negativa fino a quando non si cominceranno ad evidenziare chiari segnali di recessione e cedimento del mercato del lavoro USA. I bond governativi di lunga scadenza possono essere supportati dal “fly to quality”, anche se i tassi reali sono ancora negativi. Il motivo è che più aumentano i rischi di cedimento dell’economia, più si invertirà la curva. Siamo quindi moderatamente positivi sui bond di USA e Germania per motivi non legati ai livelli dei tassi ma semplicemente per rischi di ulteriori pesanti risk off sui mercati. L’oro, in questo sistema instabile, non può essere venduto, ma rimane comunque un hedge per rischi geopolitici e per il prossimo, inevitabile, cedimento del Dollaro, la cui forza è estremamente dipendente dai flussi sugli asset finanziari americani, che costituiscono tuttora la più grande posizione long mai registrata dal 1999.

Uno studio pubblicato dal governo tedesco sulle previsioni di crescita per il 2023 evidenzia che l’economia sarà in recessione, ma l’inflazione salirà ancora e rimarrà sopra le due cifre per tutto l’anno.

Tutto questo contrasta platealmente con le previsioni delle case d’investimento, che invece prevedono un imminente picco dell’inflazione a fine anno e un ritorno a politiche monetarie espansive dalla metà del prossimo anno. Se le previsioni del governo tedesco fossero corrette, oltre ad essere in netto contrasto con le aspettative dei mercati, confermerebbero che le politiche monetarie difficilmente potrebbero tornare espansive e i tassi rimarrebbero vicino ai massimi di periodo per molto tempo. A questo punto, i mercati finanziari dovrebbero metabolizzare un mondo molto diverso rispetto a quello degli ultimi 14 anni, con i tassi strutturali a breve termine al 4-5% in USA e al 3-4% in Europa.

Ma a parte i meccanismi di ricalcolo delle valutazioni delle borse in base a tassi più alti, ci dobbiamo chiedere quanto tempo l’economia reale impiegherà ad adeguarsi a questi nuovi parametri di costo del debito, che difficilmente tornerà ai livelli passati, salvo una devastante crisi finanziaria ed economica.

Energia e costo del denaro sono i motori del sistema, dato che impattano sui costi di produzione, sul livello di break even delle aziende e sul costo del finanziamento. Se il livello di break even si sposta al rialzo in modo significativo, per compensare puoi solo fare due cose: aumentare produzione e incrementare le vendite oppure ridurre i costi per abbassare il break even point. Nel primo caso devi avere un’economia reale che ti consente di farlo, nel secondo caso imprimi una contrazione ulteriore del PIL. Come ho già più volte sottolineato in queste note mensili, le politiche monetarie degli ultimi 15 anni hanno gettato le basi per alta instabilità economica e finanziaria a termine. Abbiamo costruito un sistema adeguato a vivere in un contesto di tassi a zero, bassa inflazione, bassa crescita salariale e domanda finanziata dal debito. Ora siamo entrati in uno scenario di alta inflazione, crescita salariale, tassi in rialzo e crisi della domanda finanziata dal debito (oggi i tassi d’interesse sul credito al consumo USA sono al 22%).

Dopo la pandemia, per impedire il collasso del sistema, abbiamo sostituito la domanda finanziata dal debito con la domanda finanziata dai sussidi statali (Pay Check, bonus e aiuti di Stato), i consumi americani sono ripartiti grazie a interventi una tantum di generosa erogazione di sussidi e moratoria sui debiti non ripagabili. Ovviamente non è possibile prolungare all’infinito i sussidi al reddito, gli aiuti di Stato e la moratoria sui debiti non ripagabili. Appena si ferma il supporto statale, l’economia cade in recessione, ed è quello che sta accadendo adesso. Il problema di base è che a partire dal 2008, dopo la crisi dei subprime, il sistema è ripartito esattamente dallo stesso meccanismo che aveva provocato la crisi: debito per finanziare la domanda. Il sistema finanziario che aveva finanziato la domanda di Real Estate è passato a finanziare la domanda di consumi interni, che sono cresciuti dal 65% al 75% del PIL USA. Il 20% di tale domanda dipende solo da debito e non da crescita dei redditi, quindi il 15% del PIL USA dipende dal credito al consumo (Subprime e non).

I consumi americani sono diventati talmente importanti da rappresentare il 18% del PIL mondiale alla fine del 2019, quando l’intera economia della Cina è il 17% del PIL mondiale e quella della Germania il 6% (tanto per dare un’idea). La domanda finanziata ha gettato le basi per il grande boom immobiliare del 2004/2007 e, nell’ultimo ciclo, per il grande boom dei consumi interni. Il debito estero degli Stati Uniti è passato dal 45% del PIL a fine 2007 al 90% del PIL alla vigilia della crisi da Covid. Questa è la dimostrazione che siamo ripartiti esattamente dal modello che ha rischiato di farci fallire nel 2008. A questo punto è utile fare alcune riflessioni sul modello di crescita utilizzato finora e chiedersi se è possibile ripartire ancora da li. Il problema principale di un modello economico basato sul debito che finanzia la domanda (rispetto a quello basato sulla crescita dei redditi), è che non può permettersi il deleverage, dato che il motore della crescita è supportato dal debito e non dal reddito. Il modello di sviluppo, per mantenersi in equilibrio, necessita di una costante crescita dell’indebitamento, che consente ai consumatori di acquistare beni e servizi che non possono permettersi con il proprio reddito reale. Per questo motivo, la crescita del PIL può essere ottenuta prevalentemente grazie ad un crescente indebitamento, che però non può mai fermarsi. Il sistema innesca un elevato grado di sviluppo finanziario, inventando strumenti di debito speculativo finalizzati a fornire credito a tutti i segmenti dell’economia (MBS, CLO, Leverage Loans, Private Credit, ecc). Quando il modello va in crisi, l’unico meccanismo d’intervento sono i “bailout” o salvataggi a carico del bilancio pubblico, mentre la Banca Centrale è obbligata ad intervenire con il QE per impedire un deleverage che il sistema non potrebbe reggere. Il ruolo delle banche d’investimento si modifica: da consulenti d’investimento diventano i motori della raccolta di denaro da canalizzare nel sistema per sostenere il leverage; questo rende il modello estremamente propenso alle creazione di bolle finanziarie (Real Estate, Borsa, Credito).

Le previsioni sugli scenari futuri elaborate da tali intermediari devono quindi essere sempre positive, per non interrompere i flussi di capitale necessari a sostenere il leverage e indurre i risparmiatori a non vendere. Dal momento che un sistema di crescita basato sul debito richiede politiche monetarie sempre espansive, le Banche Centrali perdono lentamente la loro indipendenza. Questo è il principale motivo per il quale oggi assistiamo ad una crisi di credibilità delle Banche Centrali e ad una totale confusione sulle strategie di politica monetaria, dove la lotta all’inflazione appare più teorica che effettiva, dato che nessuna Banca Centrale è in grado di ridurre il bilancio o portare i tassi reali in territorio positivo. Il collasso del modello “debt driven” non viene innescato da un cambiamento delle politiche che lo sostengono, ma quando, per vari motivi: 1) il sistema privato non può più, o non riesce più, ad aumentare il suo indebitamento, che è vitale per il sostentamento del meccanismo di crescita, 2) il reddito reale perde sempre più potere d’acquisto che il nuovo debito non riesce più a compensare, 3) eventuali fattori esogeni (inflazione o shock di offerta e domanda) non possono essere efficacemente contrastati da vere politiche monetarie o fiscali che rischiano di compromettere leverage e domanda finanziata. Allo stato attuale mi sembra che i punti 1, 2 e 3 siano già tutti presenti nel sistema.

A questo punto è altamente probabile che il paradigma sia completamente cambiato e nulla sarà più come prima.

Mi aspetto quindi un lungo bear market e una lunga fase di deleverage che avrà un duraturo impatto sulla crescita dell’economia.

Le uniche politiche efficaci per sostenere il ciclo saranno solo quelle fiscali, dato che quelle monetarie non avranno più lo stesso effetto di prima, poichè il sistema, oberato da un eccesso di debito, è esposto ad una balance sheet recession come già accaduto in Giappone negli anni 90. Il cedimento del Dollaro costituirà l’ultimo capitolo di questa fase complicata ed avverrà in concomitanza con una probabile recessione USA nel 2023, o quando la FED dovrà necessariamente prendere atto che una Debt Driven Economy non regge i tassi necessari a contrastare l’inflazione in corso. Per ripartire si dovrebbe agire su un rilancio dei redditi reali ma, in un contesto inflazionistico, tale strategia rischia di creare ulteriori problemi. In realtà, negli ultimi 15 anni abbiamo implementato politiche di QE per reflazionare l’economia quando sarebbe bastato rivalutare i redditi reali per farlo. Il risultato è che queste politiche hanno solo creato bolle speculative ed un eccesso di debito nel sistema. La crisi delle Banche Centrali (BoE, BoJ, FED e ECB), che alzano i tassi ma stampano moneta, evidenzia la fine di un esperimento fallimentare implementato senza mai pensare ad una exit strategy, proprio perché il modello fa perdere l’indipendenza dei policy maker, che diventano schiavi delle bolle che hanno alimentato.

I tentativi di sostenere le borse con le tattiche di “short squeeze”, che servono ad innescare rally puramente tecnici dovuti a ricoperture, non fanno che rimandare la vera liquidazione delle posizioni ed evidenziano continui meccanismi di manipolazione. Nel frattempo, le posizioni rialziste degli investitori rimangono vicine ai massimi storici, in attesa di un imminente cedimento della FED e un ritorno al QE per evitare una crisi.

Si è così innescato un braccio di ferro tra mercati e FED che rischia di finire male per tutti e due. Se dovessero vincere i mercati, ripristinando condizioni finanziarie espansive tramite restringimento degli spreads e ritorno al credito speculativo, l’inflazione non si fermerebbe e ripartirebbe al rialzo, costringendo la FED a rafforzare politiche monetarie anticicliche. La lotta all’inflazione è dunque complicata dal fatto che i mercati finanziari possono innescare condizioni finanziarie meno restrittive di quelle che vorrebbe avere la Banca Centrale. Non credo che la FED possa permettersi di correre questo rischio, e per questo motivo credo che le dichiarazioni saranno sempre restrittive in caso di mercati positivi e meno restrittive in caso di mercati negativi. La view sui mercati azionari rimane dunque negativa fino a quando non si cominceranno ad evidenziare chiari segnali di recessione e cedimento del mercato del lavoro USA. I bond governativi di lunga scadenza possono essere supportati dal “fly to quality”, anche se i tassi reali sono ancora negativi. Il motivo è che più aumentano i rischi di cedimento dell’economia, più si invertirà la curva. Siamo quindi moderatamente positivi sui bond di USA e Germania per motivi non legati ai livelli dei tassi ma semplicemente per rischi di ulteriori pesanti risk off sui mercati. L’oro, in questo sistema instabile, non può essere venduto, ma rimane comunque un hedge per rischi geopolitici e per il prossimo, inevitabile, cedimento del Dollaro, la cui forza è estremamente dipendente dai flussi sugli asset finanziari americani, che costituiscono tuttora la più grande posizione long mai registrata dal 1999.

La convinzione che un –20% di discesa dei mercati azionari possa coincidere con il completamento della fase negativa evidenzia una predisposizione a guardare al passato più recente per configurare un futuro senza cambiamenti. I parametri degli investitori rimangono i precedenti massimi, che vengono considerati come i livelli di riferimento di mercato a cui si dovrà di tornare. Purtroppo sono molti i segnali che provengono dall’economia reale che confermano che probabilmente non sarà così. La crisi energetica non è transitoria, dato che era iniziata già prima del conflitto Russia – Ucraina per motivi legati alla transizione green, ed i prezzi dell’energia avevano iniziato a salire mesi prima della guerra (greenflation).

Lo schock inflattivo è probabilmente destinato a subire un effetto trascinamento nel tempo attualmente sottovalutato. Un recente studio statistico-storico fatto dagli economisti di Deutsche Bank evidenzia che quando il tasso d’inflazione sale oltre il livello dell’8% ci vogliono in media due anni per farlo ridiscendere sotto il 6%.

Uno studio pubblicato dal governo tedesco sulle previsioni di crescita per il 2023 evidenzia che l’economia sarà in recessione, ma l’inflazione salirà ancora e rimarrà sopra le due cifre per tutto l’anno.

Tutto questo contrasta platealmente con le previsioni delle case d’investimento, che invece prevedono un imminente picco dell’inflazione a fine anno e un ritorno a politiche monetarie espansive dalla metà del prossimo anno. Se le previsioni del governo tedesco fossero corrette, oltre ad essere in netto contrasto con le aspettative dei mercati, confermerebbero che le politiche monetarie difficilmente potrebbero tornare espansive e i tassi rimarrebbero vicino ai massimi di periodo per molto tempo. A questo punto, i mercati finanziari dovrebbero metabolizzare un mondo molto diverso rispetto a quello degli ultimi 14 anni, con i tassi strutturali a breve termine al 4-5% in USA e al 3-4% in Europa.

Ma a parte i meccanismi di ricalcolo delle valutazioni delle borse in base a tassi più alti, ci dobbiamo chiedere quanto tempo l’economia reale impiegherà ad adeguarsi a questi nuovi parametri di costo del debito, che difficilmente tornerà ai livelli passati, salvo una devastante crisi finanziaria ed economica.

Energia e costo del denaro sono i motori del sistema, dato che impattano sui costi di produzione, sul livello di break even delle aziende e sul costo del finanziamento. Se il livello di break even si sposta al rialzo in modo significativo, per compensare puoi solo fare due cose: aumentare produzione e incrementare le vendite oppure ridurre i costi per abbassare il break even point. Nel primo caso devi avere un’economia reale che ti consente di farlo, nel secondo caso imprimi una contrazione ulteriore del PIL. Come ho già più volte sottolineato in queste note mensili, le politiche monetarie degli ultimi 15 anni hanno gettato le basi per alta instabilità economica e finanziaria a termine. Abbiamo costruito un sistema adeguato a vivere in un contesto di tassi a zero, bassa inflazione, bassa crescita salariale e domanda finanziata dal debito. Ora siamo entrati in uno scenario di alta inflazione, crescita salariale, tassi in rialzo e crisi della domanda finanziata dal debito (oggi i tassi d’interesse sul credito al consumo USA sono al 22%).

Dopo la pandemia, per impedire il collasso del sistema, abbiamo sostituito la domanda finanziata dal debito con la domanda finanziata dai sussidi statali (Pay Check, bonus e aiuti di Stato), i consumi americani sono ripartiti grazie a interventi una tantum di generosa erogazione di sussidi e moratoria sui debiti non ripagabili. Ovviamente non è possibile prolungare all’infinito i sussidi al reddito, gli aiuti di Stato e la moratoria sui debiti non ripagabili. Appena si ferma il supporto statale, l’economia cade in recessione, ed è quello che sta accadendo adesso. Il problema di base è che a partire dal 2008, dopo la crisi dei subprime, il sistema è ripartito esattamente dallo stesso meccanismo che aveva provocato la crisi: debito per finanziare la domanda. Il sistema finanziario che aveva finanziato la domanda di Real Estate è passato a finanziare la domanda di consumi interni, che sono cresciuti dal 65% al 75% del PIL USA. Il 20% di tale domanda dipende solo da debito e non da crescita dei redditi, quindi il 15% del PIL USA dipende dal credito al consumo (Subprime e non).

I consumi americani sono diventati talmente importanti da rappresentare il 18% del PIL mondiale alla fine del 2019, quando l’intera economia della Cina è il 17% del PIL mondiale e quella della Germania il 6% (tanto per dare un’idea). La domanda finanziata ha gettato le basi per il grande boom immobiliare del 2004/2007 e, nell’ultimo ciclo, per il grande boom dei consumi interni. Il debito estero degli Stati Uniti è passato dal 45% del PIL a fine 2007 al 90% del PIL alla vigilia della crisi da Covid. Questa è la dimostrazione che siamo ripartiti esattamente dal modello che ha rischiato di farci fallire nel 2008. A questo punto è utile fare alcune riflessioni sul modello di crescita utilizzato finora e chiedersi se è possibile ripartire ancora da li. Il problema principale di un modello economico basato sul debito che finanzia la domanda (rispetto a quello basato sulla crescita dei redditi), è che non può permettersi il deleverage, dato che il motore della crescita è supportato dal debito e non dal reddito. Il modello di sviluppo, per mantenersi in equilibrio, necessita di una costante crescita dell’indebitamento, che consente ai consumatori di acquistare beni e servizi che non possono permettersi con il proprio reddito reale. Per questo motivo, la crescita del PIL può essere ottenuta prevalentemente grazie ad un crescente indebitamento, che però non può mai fermarsi. Il sistema innesca un elevato grado di sviluppo finanziario, inventando strumenti di debito speculativo finalizzati a fornire credito a tutti i segmenti dell’economia (MBS, CLO, Leverage Loans, Private Credit, ecc). Quando il modello va in crisi, l’unico meccanismo d’intervento sono i “bailout” o salvataggi a carico del bilancio pubblico, mentre la Banca Centrale è obbligata ad intervenire con il QE per impedire un deleverage che il sistema non potrebbe reggere. Il ruolo delle banche d’investimento si modifica: da consulenti d’investimento diventano i motori della raccolta di denaro da canalizzare nel sistema per sostenere il leverage; questo rende il modello estremamente propenso alle creazione di bolle finanziarie (Real Estate, Borsa, Credito).

Le previsioni sugli scenari futuri elaborate da tali intermediari devono quindi essere sempre positive, per non interrompere i flussi di capitale necessari a sostenere il leverage e indurre i risparmiatori a non vendere. Dal momento che un sistema di crescita basato sul debito richiede politiche monetarie sempre espansive, le Banche Centrali perdono lentamente la loro indipendenza. Questo è il principale motivo per il quale oggi assistiamo ad una crisi di credibilità delle Banche Centrali e ad una totale confusione sulle strategie di politica monetaria, dove la lotta all’inflazione appare più teorica che effettiva, dato che nessuna Banca Centrale è in grado di ridurre il bilancio o portare i tassi reali in territorio positivo. Il collasso del modello “debt driven” non viene innescato da un cambiamento delle politiche che lo sostengono, ma quando, per vari motivi: 1) il sistema privato non può più, o non riesce più, ad aumentare il suo indebitamento, che è vitale per il sostentamento del meccanismo di crescita, 2) il reddito reale perde sempre più potere d’acquisto che il nuovo debito non riesce più a compensare, 3) eventuali fattori esogeni (inflazione o shock di offerta e domanda) non possono essere efficacemente contrastati da vere politiche monetarie o fiscali che rischiano di compromettere leverage e domanda finanziata. Allo stato attuale mi sembra che i punti 1, 2 e 3 siano già tutti presenti nel sistema.

A questo punto è altamente probabile che il paradigma sia completamente cambiato e nulla sarà più come prima.

Mi aspetto quindi un lungo bear market e una lunga fase di deleverage che avrà un duraturo impatto sulla crescita dell’economia.

Le uniche politiche efficaci per sostenere il ciclo saranno solo quelle fiscali, dato che quelle monetarie non avranno più lo stesso effetto di prima, poichè il sistema, oberato da un eccesso di debito, è esposto ad una balance sheet recession come già accaduto in Giappone negli anni 90. Il cedimento del Dollaro costituirà l’ultimo capitolo di questa fase complicata ed avverrà in concomitanza con una probabile recessione USA nel 2023, o quando la FED dovrà necessariamente prendere atto che una Debt Driven Economy non regge i tassi necessari a contrastare l’inflazione in corso. Per ripartire si dovrebbe agire su un rilancio dei redditi reali ma, in un contesto inflazionistico, tale strategia rischia di creare ulteriori problemi. In realtà, negli ultimi 15 anni abbiamo implementato politiche di QE per reflazionare l’economia quando sarebbe bastato rivalutare i redditi reali per farlo. Il risultato è che queste politiche hanno solo creato bolle speculative ed un eccesso di debito nel sistema. La crisi delle Banche Centrali (BoE, BoJ, FED e ECB), che alzano i tassi ma stampano moneta, evidenzia la fine di un esperimento fallimentare implementato senza mai pensare ad una exit strategy, proprio perché il modello fa perdere l’indipendenza dei policy maker, che diventano schiavi delle bolle che hanno alimentato.

I tentativi di sostenere le borse con le tattiche di “short squeeze”, che servono ad innescare rally puramente tecnici dovuti a ricoperture, non fanno che rimandare la vera liquidazione delle posizioni ed evidenziano continui meccanismi di manipolazione. Nel frattempo, le posizioni rialziste degli investitori rimangono vicine ai massimi storici, in attesa di un imminente cedimento della FED e un ritorno al QE per evitare una crisi.

Si è così innescato un braccio di ferro tra mercati e FED che rischia di finire male per tutti e due. Se dovessero vincere i mercati, ripristinando condizioni finanziarie espansive tramite restringimento degli spreads e ritorno al credito speculativo, l’inflazione non si fermerebbe e ripartirebbe al rialzo, costringendo la FED a rafforzare politiche monetarie anticicliche. La lotta all’inflazione è dunque complicata dal fatto che i mercati finanziari possono innescare condizioni finanziarie meno restrittive di quelle che vorrebbe avere la Banca Centrale. Non credo che la FED possa permettersi di correre questo rischio, e per questo motivo credo che le dichiarazioni saranno sempre restrittive in caso di mercati positivi e meno restrittive in caso di mercati negativi. La view sui mercati azionari rimane dunque negativa fino a quando non si cominceranno ad evidenziare chiari segnali di recessione e cedimento del mercato del lavoro USA. I bond governativi di lunga scadenza possono essere supportati dal “fly to quality”, anche se i tassi reali sono ancora negativi. Il motivo è che più aumentano i rischi di cedimento dell’economia, più si invertirà la curva. Siamo quindi moderatamente positivi sui bond di USA e Germania per motivi non legati ai livelli dei tassi ma semplicemente per rischi di ulteriori pesanti risk off sui mercati. L’oro, in questo sistema instabile, non può essere venduto, ma rimane comunque un hedge per rischi geopolitici e per il prossimo, inevitabile, cedimento del Dollaro, la cui forza è estremamente dipendente dai flussi sugli asset finanziari americani, che costituiscono tuttora la più grande posizione long mai registrata dal 1999.

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