Mercati, obbligazioni in fibrillazione in scia al “Paese coi buchi”

Ancora una volta i nostri vicini di casa, bravi produttori di Groviera, ottimo formaggio con i buchi che ben si adatta a descrivere la loro gestione delle cose, sorprendono i risparmiatori.

Poco più di 20 anni fa, il 4 ottobre 2001, la loro compagnia di bandiera, Swissair, considerata un modello di efficienza come lo stato madre, faceva default azzerando i risparmi di migliaia di obbligazionisti ed azionisti, tra cui anche alcuni Cantoni e fondi pensione interni. Eppure solo un anno prima festeggiava l’emissione dei suoi primi due bond in euro (4,375% 2006 XS0098207102 e 6,625% 2010 XS0118391936) per competere meglio nella crescita all’interno del nuovo panorama europeo per il quale acquistarono la belga Sabena ed alcune società minori in Francia, al fine di avere pari diritti di volo come le compagnie dell’UE. Quelle emissioni uscirono con rating A3, status migliore di molti Paesi europei, nostro compreso. Eppure nonostante quest’ultimo aspetto di non poca rilevanza, riuscirono a “defaultare” senza neppure pagare una cedola, la prima sarebbe stata il giorno 6 ottobre, e girare gli aerei e il business sulla compagnia regionale Crossair e continuare come se niente fosse. Almeno nel nostro Paese, chi investì in Parmalat o Cirio, qualche euro di cedola o di recupero sulle azioni della nuova società lo portò a casa.

Dal dopoguerra in avanti il sistema finanziario elevetico si è retto sul segreto bancario e sulla paura internazionale di guerre, colpi di Stato, rapimenti e avanzata dei comunisti, raccogliendo così molti capitali soprattutto negli anni ’70, anche dal nostro Paese. Con la crescita delle masse purtroppo molti capitali sono stati gestiti da una classe lavorativa impreparata e che per la maggior parte aveva in precedenza accumulato esperienze più agricole che finanziarie, ben espresse anche nel linguaggio dialettale di alcune caricature comiche. La fine del segreto bancario, ha scoperchiato un mondo che si credeva preparato ed efficiente e che in molti casi non lo era affatto. Il sistema dovette affrontare una forte crisi che culminò nel 2007 con l’intervento statale per fare fondere la sua principale banca in difficoltà, alle prese con il dissesto dell’hedge fund americano LTCM e con le perdite sui mercati asiatici per le crisi del 1997-98 in quei paesi, con la seconda in graduatoria, SBS, ma ben più strutturata e preparata.

L’ultima lezione da questi “produttori di Gruyer”, ci arriva dalla gestione di questi giorni della vicenda Credit Suisse, che fino alla scorsa settimana, carte alla mano, incontrava il mondo finanziario internazionale il 14 marzo, assicurando la bontà dei sui numeri, confermati anche dalle autorità politiche e di controllo interne.

Sarebbe bastato a “costo zero”, dichiarare quanto detto negli Usa per le banche in difficoltà, ossia che “lo Stato poneva una garanzia sui depositi” per almeno i tre anni di attuazione del nuovo piano industriale presentato a fine 2022 dopo il rafforzamento di capitale da quattro miliardi di franchi nel quale entrarono come primi azionisti la banca dell’Arabia Saudita e il fondo sovrano del Qatar, per frenare l’emorragia di clienti spaventati, verso altre banche. Invece i rappresentati politici ed amministratori presenti nella conferenza stampa di domenica sera hanno parlato di “operazione commerciale” invece di usare un più appropriato “salvataggio” per unire le due banche ad un prezzo concordato. In questa operazione hanno però pensato bene di “brasare” circa 16 miliardi di titoli AT1, molti dei quali trattati anche sulla Borsa svizzera con taglio minimo a portata retail di 5mila franchi.

Questa operazione ha destabilizzato i mercati e lunedi mattina la credibilità di questi titoli che vennero introdotti nel 2008 dopo il crack Lehman al fine di rafforzare i bilanci delle banche e che potrebbero essere convertiti in azioni in caso di abbassamenti dei parametri sotto le soglie “Cet1” era ai minimi storici. Nello specifico dei titoli CS AT1, la conversione di questi titoli sarebbe avvenuta, secondo il prospetto e le note della banca all’emissione, se il Cet 1 fosse sceso sotto il 5,125%. Ancora il 14 marzo, la banca, incontrando gli analisti, dichiarava un Cet 1 del 14,1% ben più alto della soglia minima del 9,3% richiesto dalle autorità del Paese.

Di fronte a questi eventi è stato “gigantesco” per prontezza ed efficacia, l’immediato intervento delle autorità finanziarie europee pochi minuti dopo l’apertura negativa dei mercati lunedi mattina, a sottolineare il distinguo dell’Eurozona nella gestione dei titoli del settore bancario, ridando fiducia ai prezzi dei titoli AT1 europei, peraltro presenti in molti fondi ed Etf internazionali e quindi anche nei portafogli d’investitori retail finali. Questi fondi internazionali si stanno attrezzando, con buona possibilità di successo, è da augurarselo, ad affrontare cause miliardarie nei confronti di questa operazione che almeno aprirà occhi e pensieri per chi vorrà in futuro ancora investire in titoli di società del paese del groviera.

Di fronte a questo scenario è quasi passato in secondo piano il fatto che fossimo in una settimana cruciale per i mercati che prevedevano la riunione della Fed e le nuove decisioni in materia di tassi, con alcuni che stanno iniziando a pensare anche a ribassi degli stessi nel corso del 2023.

Chi pensava che Powell non avrebbe fatto nulla è andato deluso, però il riscontro verbale successivo ha visto un governatore molto più pragmatico e meno sicuro nel parlare di rialzi di tassi ed inflazione. Nello specifico l’istituto centrale Usa ha alzato i tassi di 25 punti base, in linea con le attese della maggior parte degli osservatori, portandoli in un range di 4,75%-5,00% ma ha segnalato che potrebbe essere giunta al punto di prendere una pausa nella stretta monetaria dopo le recenti turbolenze del comparto bancario.

Nel comunicato, a differenza che in precedenza, la Fed ha omesso la parte in cui faceva riferimento al fatto che rialzi continui sarebbero stati appropriati. I mercati hanno interpretato questa assenza come il segnale che il picco dei tassi possa essere vicino facendo scivolare i rendimenti dei Treasuries ai minimi di seduta. Le proiezioni mostrano come dieci dei 18 esponenti della Fed si aspettino ancora un ulteriore rialzo da 25 punti base entro la fine del 2023. Powell ha sottolineato anche che la prospettiva di un taglio dei tassi quest’anno non è prevista dallo scenario base della Fed. Nella successiva conferenza stampa, il governatore ha detto che le turbolenze nel sistema bancario potrebbero portare a un credit crunch con implicazioni per l’economia del Paese, pur cercando poi di rassicurare i titolari di depositi, i consumatori e le imprese sulla solidità del sistema. Una doccia fredda sulle garanzie per i depositi è arrivata dalla segretaria del Tesoro Usa Yellen, che ieri ha dichiarato di non aver preso in considerazione o discusso una assicurazione totale per i depositi bancari senza prima passare dall’approvazione del Congresso, che in caso di necessità dovrebbe comunque essere certa.

Quindi grandi pressioni sui listini azionari e “porto sicuro” per i governativi in generale, con il Btp decennale che a inizio settimana era addirittura tornato sotto il 4%. Una volta calmierata la situazione il nostro rendimento è tornato sopra il 4% in compagnia di Grecia e Cipro, mentre la matricola Croazia che qualche settimana fa era entrata nel club 4% è rimasta al 3,75%. Nutrita l’area del 3%, ma tanti governativi sono tornati sotto questa soglia con la Germania al 2,25%, che in settimana era riuscita anche a tornare sotto il 2%. Spread Btp/Bund a quota 185 mentre calano anche i Treasury decennali al 3,47%, il rendimento del Gilt inglese decennale è al 3,42%.

I nuovi bond governativi sotto la lente

In questo contesto di mercato è quasi impossibile impostare nuove operazioni e quindi sono pochi gli emittenti che hanno raccolto capitali sul mercato primario. Tra questi in Germania il land Free State of Saxony ha collocato un’obbligazione senior a cinque anni dell’ammontare di 500 milioni di euro. Prime indicazioni di rendimento in area 9 punti base sotto il tasso midswap. L’obbligazione ha scadenza 29 marzo 2028, cedola 2.875%, prezzo 99.908 e rendimento 2.895%. Taglio minimo di mille euro con multipli di mille, rating AAA e Isin DE0001789352.

Le obbligazioni corporate sotto i riflettori

Molto strana l’operazione della svizzera UBS, coinvolta nel salvataggio Credit Suisse, che ha annunciato il riacquisto di obbligazioni per 2,75 miliardi di euro. Le operazioni di buyback sono frequenti nel panorama bancario e societario, ma forse è la prima volta nel mondo che accade che siano state riacquistate a pochi giorni dall’emissione, infatti, le due obbligazioni UBS oggetto dell’offerta erano state emesse il 9 marzo scorso. Si tratta di una tranche da 1,5 miliardi con scadenza marzo 2028 e cedola 4,625%, Isin CH1255915006 e un’altra da 1,25 miliardi con scadenza marzo 2032 e cedola 4,75%, Isin CH1255915014, che saranno riacquistate rispettivamente ai prezzi d’emissione 99,932 e 99,518.

Ottimo successo in area dollaro per lo stato di Panama, che ha collocato complessivamente 1.8 miliardi divisi su due titoli, nell’operazione più significativa della settimana che ha visto richieste quasi doppie. 800 milioni sono stati sul tap di un titolo già in circolazione con scadenza 2035 con Isin US698299BT07, emesso nella prima tranche a novembre del 2022 con cedola del 6,4% al prezzo di 98,946. Questa tranche che ha taglio minimo da 200mila dollari con mltipli di mille è stata collocata al prezzo di 101,961 e ha performato verso quota 102,40. Il nuovo titolo collocato per 1 miliardo, ha cedola del 6,853% con scadenza nel 2054 ed isin US698299BV52 e ha ben performato sul prezzo d’emissione a 100, arrivando in grey market a quota 102,5.

A cura di Carlo Aloisio, senior broker

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