Serve piu' chiarezza

Quali sono i motivi che l’hanno spinta a intraprendere la professione di consulente indipendente?
Nella mia lunga carriera lavorativa, in ambito finanziario, ho notato un assoluto bisogno da parte della clientela di avere un punto di riferimento, slegato da qualsiasi conflitto di interesse, a cui aggrapparsi per rimanere a galla nel mare di offerte e prodotti troppo spesso di parte. Questo mi ha spinto, dopo la banca e la promozione finanziaria, verso l’unica direzione possibile: la consulenza finanziaria indipendente, che deve obbligatoriamente essere libera da rapporti subordinati di qualsiasi tipo, poiché in Italia c’è bisogno di una netta distinzione tra attività di collocamento e consulenza. 
 
Come è possibile oggi riconoscere un consulente semplice venditore, da quello che “consiglia” realmente il prodotto più adatto e conveniente per il cliente?
E’ molto semplice. Il primo lavora per una istituzione finanziaria con regolare mandato, mentre il secondo lavora solo per il cliente, con un mandato ad hoc che il cliente stesso gli conferisce. Quest’ultimo andrà alla ricerca del prodotto più efficiente, in termini di rapporto costi-rendimenti, disponibile sul mercato mondiale, cosa che assolutamente non può e non riesce a fare il primo, perché vincolato ai prodotti messi a disposizione dalla casa mandante.
 
Con il recepimento della MiFID e la nascita dell’albo non crede che d’ora in poi ci sarà una netta distinzione tra le due professioni?
Sicuramente l’albo darà maggiore visibilità alla nostra categoria. Nella bozza del regolamento attuativo, però, non si è fatta chiarezza tra le figure che saranno preposte a fornire il servizio di consulenza alla clientela. Anzi, per certi versi il vecchio sistema, tenta di ampliare la confusione dei ruoli ingenerando nei clienti la falsa credenza che un promotore finanziario svolga la stessa attività di un consulente finanziario indipendente. 
 
Grazie sempre alla MiFID sono state introdotte nuovi metodologie lavorative. In particolare, lei è tra gli autori di un software per raccogliere il test di adeguatezza. Può spiegarci nel dettaglio come funziona?
L’idea è nata dall’esigenza di personalizzare il grado di rischio a cui un cliente può essere sottoposto e nello stesso tempo uscire dalla standardizzazione operata dalle banche. Il programma è composto da trentuno domande suddivise in cinque sezioni. Oltre alle sezioni indicate dalla direttiva, abbiamo unito altre sezioni legate più alla sfera comportamentale, psicologica ed emozionale del cliente. Con opportune domande di verifica, a ogni risposta viene attribuito un peso che è diverso per ogni profilo. Il software si articola attraverso un output dal quale scaturiscono le sole risposte del cliente, seguite da una tabellina su cui viene riportato, per ciascun profilo di rischio, il punteggio finale e un asterisco indicante il “Valore al Rischio” massimo sopportabile dal cliente. I punti di distinzione rispetto a un qualsiasi altro questionario, visionato sul mercato, sono vari. 
E tra questi spicca, per utilità immediata, la tabellina finale. Il consulente è libero di prendere la profilatura assegnata dal programma, oppure può analizzare in modo attivo il punteggio e valutare, con l’ausilio delle sue capacità se il var, più vicino a quello indicato in automatico dal programma sia più idoneo al cliente. 
 
Prevede che ci saranno ulteriori sinergie tra tecnologia e consulenza?
Me lo auguro, anche se penso che l’esperienza, la sensibilità e la profonda conoscenza del cliente faranno la differenza tra un bravo consulente e uno mediocre. 

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