Rivoluzione "alternativa" per gli hedge fund

Le modifiche proposte sono sostanzialmente tre, ma da sole bastano a rivoluzionare l’industria degli hedge fund aprendola definitivamente al mercato retail.

La metamorfosi degli hedge: da speculativi ad alternativi

La prima modifica suggerita dal tavolo tecnico voluto dal governatore Mario Draghi riguarda la denominazione dei fondi hedge. In Italia, difatti, per una non meglio precisata ragione, si è da principio voluto etichettare i fondi hedge con l’appellativo di “speculativi”: nome tutt’altro che rassicurante e costato un grande lavoro di comunicazione alle divisioni marketing delle SGR italiane, impegnate a far comprendere agli investitori che di speculativo c’era solo il nome appunto.
 
Oggi (con un tempismo ancora una volta drammatico visto i numerosi problemi che hanno coinvolto diversi fondi hedge) il legislatore sembra aver capito che gli hedge non sono strumenti disegnati dal “diavolo” bensì l’evoluzione più moderna del vecchio fondo comune. Da qui la proposta di ridenominare gli hedge fund come fondi “alternativi” e non più, appunto, speculativi.
 
Investimento minimo e numero di investitori

Le novità più stravolgenti riguardano però il tema “soglia di investimento minimo” e “numero di investitori”. E, su questo fronte, il nostro paese ha sempre goduto di un primato personale. Per anni si è discusso se e come regolamentare l’accesso ai fondi alternativi da parte degli investitori privati: la soluzione fu di porre una soglia minima di investimento particolarmente elevata (la più alta in Europa) che doveva fungere da spartiacque tra investitori “sofisticati” e non. 
 
Per questo, il limite inizialmente imposto fu di addirittura pari a 1 milione di euro (ben presto ridotto agli attuali 500.000 euro).
Anche in questo le critiche si sono sprecate circa l’introduzione di una soglia di accesso così elevata che di fatto ha tagliato fuori dagli hedge “nostrani” una fetta importante del mercato del risparmio. 
 
In aggiunta il legislatore non ha mai fatto nessuna distinzione tra i fondi di fondi (strumenti molto diversificati e con una volatilità contenuta) e i cosidetti fondi puri, strumenti più volatili e, in teoria, più rischiosi.

E proprio sulla mancata distinzione tra fondi di fondi e single manager il dibattito si è accesso particolarmente negli ultimi anni. Soprattutto se si considera la realtà dell’industria negli altri paesi europei. Portogallo, Germania, Irlanda e Francia (per fare alcuni esempi) da diverso tempo prevedono regole di accesso al mondo degli hedge ben distinte tra le due categorie: fondi di fondi e fondi puri.

Nel caso dei fondi di fondi si va dalla mancanza di soglie minime di investimento, stabilite da Germania, Irlanda e Portogallo, ai 10.000 euro della Francia. Mentre sul fronte single manager si passa dai 15.000 della Portogallo ai 250.000 della Francia. In un tale scenario è evidente che l’Italia si presenta come un’industria con pesanti limiti. 
 

Ma ora sembra che qualcosa sia cambiato, e nel documento redatto da Banca d’Italia, si suggerisce una barriera all’ingresso molto più ridotta per i fondi di fondi e più elevata per i fondi puri (anche se inferiore a quella attuale).
 
In particolare, per i fondi di fondi si prevede l’eliminazione del numero massimo di partecipanti (oggi 200) e l’abbassamento della soglia di ingresso fino a 25.000 euro per quei fondi che investono almeno il 90% delle loro attività in altri fondi e rispettino determinate norme prudenziali (limiti di frazionamento del rischio e di leva finanziaria, requisiti riferita alla periodicità di calcolo del NAV e della rimborsabilità delle quote dei fondi target). 
 
Sul fronte single manager la nuova soglia minimo di investimento suggerita sarebbe pari a 250.000 euro, ma sempre senza più limiti sul numero massimo di partecipanti. Se queste modifiche dovessero andare in porto, l’Italia si allineerebbe finalmente al panorama europeo, dove da anni l’accesso ai fondi è possibile anche con somme minime e con una netta distinzione tra fondi di fondi e fondi puri. 
 
Sfortuna vuole che questa modifica del piano regolamentare dei fondi alternativi italiani avvenga in piena crisi dei mercati. Per non dire in piena crisi degli hedge. L’industria, infatti, che globalmente gestisce ormai una cifra prossima ai 3 trilioni di dollari, sta riscontrando performance in declino e un tasso di crescita delle masse inferiore al passato (rendimenti e masse gestite comunque molto positive se raffrontate ai fondi comuni tradizionali).
 
Quello che resta da capire è se dietro questi interventi ci sia la volontà di incentivare ulteriormente l’industria alternativa italiana (che oggi gestisce masse per poco meno di 54 miliardi di euro) oppure trovare un escamotage per migrare gli scontenti dei fondi comuni verso gli alternativi. Di certo è prevedibile assistere nei prossimi mesi ad un incremento delle campagne marketing da parte delle SGR alternative italiane per avvicinare ai fondi hedge il maggior numero di risparmiatori retail.

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