L’S&P 500 ha registrato un nuovo massimo storico mentre gli investitori si sono “scrollati di dosso” il rapporto CPI che ha di fatto suggerito come l’inflazione fosse in ripresa. L’indice è salito alla sua 17a chiusura record dell’anno, nonostante l’inflazione di febbraio sia stata superiore alle attese e in crescita. Crescita in realtà non abbastanza da scuotere le convinzioni del mercato che la Fed rimanga sulla strada della riduzione dei tassi di interesse.
Tra le migliori performance, le azioni dei semiconduttori che hanno registrato un rimbalzo dopo un crollo di due giorni. La rinnovata forza nei semiconduttori, ma anche di altre società di servizi tecnologici e di comunicazione, ha sostenuto il mercato. L’indice della tecnologia informatica è salito di oltre il 12% dopo che i risultati trimestrali sono stati pubblicati martedì della scorsa settimana.
La maggior parte degli investitori sembra aver ignorato la crescita dell’inflazione, a differenza del rapporto di gennaio altrettanto più caldo del previsto che però ha innescato una breve svendita. Vero è che i dati di febbraio contenevano segnali più positivi rispetto a quelli di gennaio (le pressioni sui prezzi in molti settori dell’economia continuano infatti ad attenuarsi).
A prima vista, la vischiosità dell’inflazione potrebbe sembrare preoccupante, ma alcuni dettagli sono un po’ più incoraggianti, soprattutto dal lato dei beni. I principali beni di consumo di prima necessità, come i prezzi dei prodotti alimentari, sono infatti diminuiti a febbraio (sono già in deflazione) contribuendo ad esercitare una pressione al ribasso sull’indice dei prezzi al consumo complessivo e contrastando la pressione al rialzo dei prezzi dell’energia. Le spine nel fianco per la Fed, continuano a essere rappresentate dai servizi core e dai prezzi degli immobili, entrambi però previsti in riduzione nei prossimi mesi.
L’aggiornamento dell’IPC di febbraio sembrava fornire la prova che i numeri più forti del previsto di gennaio potevano essere l’inizio di una ripresa dell’inflazione. Probabilmente non è così, ma occorre comunque porre attenzione ad alcune componenti che rimangono ostinatamente elevate, il che rende improbabile che la Fed abbassi il tasso dei fondi di riferimento in tempi brevi. Che tradotto significa che sicuramente non se ne parla prima di giugno. Quindi il prossimo meeting del 19-20 marzo si concluderà senza alcuna variazione dei tassi.
Secondo il FedWatch Tool del CME, i trader hanno fissato una probabilità del 99% che l’obiettivo dei fondi federali rimanga invariato al 5,25%-5,5% dopo la riunione del FOMC della prossima settimana. Lo strumento mostra una probabilità dell’85% che il tasso dei fondi federali rimanga invariato anche dopo la riunione di maggio. Scendono inoltre al 57% (dal 59% della scorsa settimana) le probabilità di una riduzione di un quarto di punto dopo la riunione del FOMC di giugno.
Guardando al futuro crediamo che i mercati e la Fed si concentreranno sui dati del mercato del lavoro, dove ci sono segnali di debolezza, rispetto alla persistente rigidità dell’inflazione del settore dei servizi. Il risultato sarà probabilmente un continuo range trade dei titoli del Tesoro attorno ai livelli attuali. Il mercato obbligazionario sembra infatti essere sempre più intrappolato tra le speranze di taglio dei tassi e i dati economici resilienti.
A cura di Antonio Tognoli, responsabile macro analisi e comunicazione di Cfo Sim