Oddo BHF: l’asset su cui puntare sono i Treasury Usa

A cura di Laurent Denize, global co-cio ODDO BHF

Crollano le azioni, precipita il credito, il dollaro scivola…e i rendimenti salgono. Un’insolita combinazione registrata ultimamente negli USA e vista in precedenza nel Regno Unito durante l’episodio Liz Truss, nonché di frequente sui mercati emergenti, dove si manifesta una diffusa perdita di fiducia. Se le cose dovessero continuare così, il rischio è una fuga dagli asset USA, dato che dollaro statunitense e Treasury sono i paradisi sicuri del mondo e il sistema finanziario globale è stato costruito sull’ipotesi che siano affidabili. Che direzione prenderanno i mercati finanziari? La soluzione dell’enigma si trova in un solo asset: i Treasury USA.

Se i rendimenti delle obbligazioni dovessero continuare a salire, l’amministrazione Trump sarà costretta a deporre le armi della guerra commerciale (eliminando la possibilità di futuri tagli fiscali), o la FED dovrà necessariamente intervenire. Gli USA hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi e la prova è l’enorme debito accumulato, che rappresenta oltre il 110% del PIL, nonché un disavanzo di bilancio che quest’anno dovrebbe superare il 7%. In tutto, quest’anno, gli Stati Uniti devono fare i conti con circa 8000 miliardi di USD di titoli di stato e obbligazioni in scadenza, pagare altri 500 miliardi di USD di interessi su obbligazioni e titoli di debito in circolazione ed emettere altri 2000 miliardi di USD in nuovi titoli di stato. È soprattutto grazie alle obbligazioni che gli USA sono stati in grado di generare crescita, celando il declino negli standard di vita degli ultimi 50 anni. Con i rendimenti obbligazionari in costante calo dall’inizio degli anni ‘80, gli USA sono stati in grado di emettere quantità ancora maggiori di debito, iniettando credito nel sistema finanziario.

In seguito ai dazi di Trump, il rendimento del decennale USA si è impennato, passando dal 3,9% al 4,5% e portando all’aumento nei costi di finanziamento. Anche se ancora non siamo ai livelli di allerta del 5,5-6%, a preoccupare è la rapidità dell’aumento. I rendimenti dei decennali USA erano al di sopra del 5% appena 15 anni fa, ma da allora, gli USA hanno accumulato un debito superiore a 20.000 miliardi di USD. Sapendo che devono rinnovare 10.000 miliardi di USA nei prossimi dodici mesi, il governo Trump vuole disperatamente farcela tramite il debito a lungo termine, invece che con quello a breve, ma se i tassi d’interesse saranno proibitivi, l’amministrazione USA si troverà con le spalle al muro. Un’impennata nei rendimenti porterebbe senz’altro a una recessione, considerando il massiccio indebitamento degli USA (i pagamenti di interesse oggi rappresentano la voce di spesa maggiore nel bilancio statunitense). Un simile scenario avrebbe molti effetti negativi, a partire dal drastico crollo nei consumi dovuto ad una carenza di risparmi e a un ciclo del credito spento, per arrivare a un calo nella fiducia delle famiglie, che vedrebbero diminuire il valore dei propri asset finanziari e immobiliari, i due motori dell’effetto ricchezza negli USA.

Le opzioni del segretario dei Treasury Scott Bessen per abbassare i rendimenti prima dello scadere del tempo sono limitate. La prima sarebbe ridurre il deficit USA per ripristinare la fiducia degli investitori nella condizione di “assenza di rischio” attribuita ai Treasury. La probabilità che questo avvenga è scarsa e i risparmi realizzati dal DOGE non bastano a compensare quest’infinita deriva fiscale. La seconda sarebbe vendere asset materiali (in gran parte risorse minerali non sfruttate) per ripagare il debito, ma difficile pensare che avverrà a breve. La terza sarebbe privatizzare Fannie Mae e Freddie Mac, mettendo pressioni al ribasso sui rendimenti dei Treasury. Il rischio è che ne deriverebbe una pressione sui tassi di interesse dei mutui, influenzando negativamente la fiducia delle famiglie. La quarta sarebbe escludere i Treasury dai calcoli del SLR (coefficiente di leva finanziaria supplementare) della FED, che impone alle più grandi banche USA di avere capitale pari ad almeno il 5% dei loro asset totali. Quest’ultima opzione potrebbe essere adottata rapidamente. La FED ha guadagnato una significativa credibilità nella propria capacità di affrontare situazioni di panico, perciò Powell può decidere di acquistare debito USA a lungo termine. La FED detiene il 14% dei titoli di stato USA e nulla le vieta di detenerne il 100%. Le autorità statunitensi possono inoltre decidere di fissare formalmente i rendimenti obbligazionari.

Lo scenario più negativo sarebbe una persistente incertezza commerciale a livelli elevati. Ciò porterebbe a rendimenti più elevati, pesando sulle prospettive di crescita e frenando ulteriormente l’economia, penalizzando il bilancio fiscale e rendendo il dollaro USA ancora più debole. Un simile scenario contribuirebbe a importare inflazione, alimentando un’ulteriore vendita di Treasury. Affinché ciò avvenga, il dollaro dovrebbe perdere il proprio ruolo di valuta di riserva. Gli investitori continuano però a prevedere un significativo allentamento monetario (tre tagli di 25 pb nel 2025) e le previsioni d’inflazione (pareggio a 10 anni) cambiano poco in questa fase, il che riduce la possibilità di un irrigidimento della posizione della Fed. Inoltre, i Paesi con un surplus commerciale con gli USA (quasi tutti!) non hanno reali alternative a parte reinvestire le proprie eccedenze in USD, scegliendo i Treasury come asset sottostante. Ecco perché non crediamo che lo scenario peggiore si verificherà.

Come posizionarsi?

 Tassi USA: Negli ultimi giorni le scadenze a breve termine (2 anni) sono state relativamente ben contenute, mentre quelle a lungo termine (10 e 30 anni) sono state particolarmente colpite. Lo status di “paradiso sicuro” del debito USA inizia a essere messo in dubbio. Tra gli altri, il Canada Pension Plan (504 miliardi di USA di masse in gestione) sta rivalutando il proprio approccio agli USA e uno dei principali fondi pensione danesi ha sospeso i nuovi investimenti in private Equity americano. Ma ciò significa un allettante premio di rischio potrebbe attirare investitori stranieri e che l’imminente calo economico spingerà i rendimenti USA verso il basso. Ha senso preferire la parte iniziale della curva per arginare il rischio nel breve termine di un’ulteriore ondata di cessioni di obbligazioni a lunga scadenza.

Tassi europei: Nel breve termine, i timori sulla crescita potrebbero pesare sulla direzione dei tassi d’interesse più dell’impatto inflazionistico dei dazi. Per questo passiamo a una duration leggermente più lunga sui paesi core dell’Europa, restando più prudenti su semi-core e sui periferici. Considerando l’impatto inflazionistico a lungo termine dei programmi di stimolo e dei dazi, preferiamo la parte intermedia della curva rispetto a quella lunga.

Credito: Restiamo prudenti sul rischio di credito sia in Europa che negli USA. Poiché i livelli di spread sono ancora bassi, in termini assoluti, il compenso per un’incertezza sostanzialmente aumentata, per la volatilità dei mercati e per il rischio di recessione è insufficiente, in particolare per l’high yield a duration lunga. Al contrario, l’investment grade e l’high yield a duration breve dovrebbero continuare ad approfittare di rendimenti ancora allettanti.

Azioni: Se i Treasury vengono ceduti per via della continua instabilità, allora il tasso “privo di rischio” ipotizzato per le azioni USA dovrà essere aumentato, portando a un graduale incremento nel costo del capitale a un livello negativo per le azioni. Restiamo perciò relativamente sottoesposti alle azioni USA. Tuttavia, dato che le valutazioni azionarie sono scese pesantemente, alcune valutazioni aziendali appaiono convenienti nel lungo termine. In questo contesto e considerando i programmi di stimolo fiscale in Germania, nonché misure di rappresaglia più mirate da parte dell’Europa, pensiamo che l’Europa sia una scommessa relativamente migliore.

Conclusione

Gli ultimi giorni hanno dimostrato che lo scompiglio sul mercato delle obbligazioni statunitensi forse non è che la leva per esercitare influenza e pressione sull’amministrazione Trump. Come ha detto lo stesso Trump alla stampa, poche ore dopo aver annunciato la pausa di 90 giorni negli elevati dazi reciproci: “La gente stava iniziando a sentirsi poco bene” e “Il mercato obbligazionario è molto complesso”. Nessuno gli ha risposto: “Certo che lo è… è il mercato obbligazionario!” ma l’ultimo capitolo di Trump 2.0 ha dimostrato i limiti (di mercato) della politica di Mister Trump. La buona notizia è che almeno abbiamo due certezze. Una è che il successo di Trump è strettamente legato al successo del mercato obbligazionario. L’altra è che la “Trump Put” esiste. La cattiva notizia è che l’altalena politica potrebbe durare ancora per diversi trimestri e Trump non ha ancora trovato la formula magica per recuperare e pareggiare la partita con il mercato obbligazionario sull’1-1.

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