Asset allocation: ecco perché puntare ancora sull’azionario Usa

Quando si parla dei mercati finanziari in generale e azionari in particolare, ci sono alcuni fatti e cifre chiave che ogni investitore dovrebbe conoscere. Cominciamo con il dire ci sono molte correnti contrastanti che attraversano i mercati dei capitali in questo momento, ma continuiamo a credere che la tendenza per i titoli azionari statunitensi a lungo termine, sia ancora verso l’alto. Ecco cosa riteniamo che debbano avere chiaro gli investitori.

La quantità di tempo che l’economia statunitense ha trascorso in recessione dal 1945, secondo i dati del Bureau of Economic Analysis (BEA) è pari al 13%. Le recessioni economiche sono rare, con la produzione economica statunitense che è cresciuta da meno di 100 miliardi di dollari dopo la Seconda Guerra Mondiale ai 30 trilioni di dollari di oggi. Il motore economico americano raramente si inceppa a lungo grazie alla natura incredibilmente diversificata della sua economia, con gli Stati Uniti come superpotenza economica in numerosi settori, dall’agricoltura all’aerospaziale, dall’istruzione all’intrattenimento, dalla tecnologia ai trasporti, includendo manifattura e servizi. Non esiste al mondo un’economia più dinamica e resiliente di quella americana.

La percentuale del consumo personale totale statunitense rappresentata dal 10% delle famiglie più ricche, secondo Moody’s è del 50%. Non tutti i consumatori statunitensi sono uguali a causa di fattori differenzianti come il livello di istruzione, la proprietà di attività finanziarie e i livelli di reddito. In parole semplici, le famiglie ad alto reddito sono i fattori critici del consumo statunitense e, in questo momento, sostenute dai forti guadagni azionari dalla fine del 2022, dall’impennata dei valori immobiliari/apprezzamento e da un tasso di disoccupazione tra i lavoratori con istruzione universitaria di appena il 2,5%, i consumatori a reddito più elevato sono pronti a continuare a spendere quest’anno. Questo è uno dei motivi chiave per il quale non vediamo una recessione all’orizzonte.

Il tasso tariffario effettivo medio degli Stati Uniti sulle importazioni, secondo il Budget Lab di Yale è del 17,8%. Sebbene l’amministrazione Trump abbia ridimensionato la minaccia di tariffe commerciali verso Cina, Europa e altre nazioni, il fatto è che al momento il tasso tariffario effettivo sulle importazioni statunitensi rimane straordinariamente elevato. Il tasso tariffario è circa sette volte più alto rispetto all’inizio dell’anno, ma rimane in flux a causa della recente decisione della Corte del Commercio Internazionale degli Stati Uniti, che ha stabilito di annullare la maggior parte delle nuove tariffe di Trump. Quindi sì, i mercati si sono adattati al “Giorno della Liberazione”. Ma detto questo, crediamo che ci saranno ulteriori turbolenze e agitazioni del mercato a causa dei tassi tariffari statunitensi più elevati e del conseguente onere per le aziende statunitensi di adattarsi.

Il numero di anni consecutivi in cui gli Stati Uniti hanno registrato un deficit commerciale di merci con il resto del mondo è di 50 anni, secondo il BEA. Come il più grande cliente di beni al mondo, l’America è stata a lungo il principale motore del commercio globale. In effetti, il mondo è diventato così abituato e dipendente dai consumatori statunitensi che l’ultima volta che gli Stati Uniti hanno registrato un surplus commerciale di merci è stato nel 1975. Su base cumulativa, il deficit commerciale combinato dell’America dal 1976 ammonta a uno sbalorditivo trasferimento di ricchezza transfrontaliera di 22 trilioni di dollari. È un conto enorme che l’America non vuole più sostenere. I tempi stanno cambiando e il commercio globale viene riordinato. il che, a lungo termine, è una prospettiva rialzista per le aziende americane, a patto che il resto del mondo abbasserà/adatterà le proprie tariffe sui beni e servizi statunitensi.

Il numero di posti vacanti nel settore manifatturiero negli Stati Uniti ad aprile è pari a 449.000, secondo il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. Sebbene comprendiamo l’appello urgente a produrre più beni negli Stati Uniti, in particolare input critici come semiconduttori e ingredienti farmaceutici essenziali, la scomoda verità è che gli Stati Uniti non dispongono di un ampio bacino di manodopera manifatturiera da cui attingere. La robotica e l’automazione aiuteranno a colmare il divario, ma l’America aziendale rimane a corto di operai specializzati.

Il rapporto tra la spesa militare globale come percentuale del prodotto interno lordo (PIL) globale è del 2,5%. Nonostante una guerra di terra in Europa e in Medio Oriente, le crescenti tensioni geopolitiche nel Mar Cinese Meridionale e la nascente rivalità tra grandi potenze tra Stati Uniti e Cina, oltre alla guerra cibernetica, la spesa per la difesa globale come percentuale del PIL mondiale rimane vicina ai minimi storici, appena il 2,5% rispetto a una media del dopoguerra del 3,4%. Detto questo, là fuori è un mondo pericoloso. È in atto una corsa agli armamenti globale che include una maggiore spesa non solo per munizioni tradizionali come carri armati, missili e aerei, ma anche per capacità di cybersecurity. In questo contesto, i favoriti saranno i leader della difesa globale, in particolare le aziende tecnologiche di difesa innovative degli Stati Uniti.

L’ammontare del debito federale statunitense detenuto da stranieri, secondo la Fed, è pari a 8,5 trilioni di dollari (che equivale a circa il 30% del debito pubblico statunitense). Gli investitori stranieri sono stati a lungo una fonte critica di risparmio per l’America gravata dal deficit e dal debito. Difficile pensare che questo possa cambiare a breve, sebbene l’animosità globale verso le tariffe commerciali statunitensi abbia sollevato lo spettro di uno “sciopero degli acquirenti” tra gli investitori stranieri. Il Giappone detiene circa il 12,4% di tutti gli investimenti stranieri nel debito federale pubblico statunitense, seguito dalla Cina (8,9%) e dal Regno Unito (8,4%). Fatti i conti, questo significa che i pagamenti di interessi sul debito statunitense versati agli stranieri sono ammontato a ben 231 miliardi di dollari l’anno scorso. Una cifra tutt’altro che insignificante.

La percentuale totale che il dollaro statunitense rappresenta nelle transazioni di cambio estero globali è dell’88%, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali. Il dollaro rimane quindi l’ossigeno dell’economia globale. Mentre la combinazione dell’incertezza tariffaria statunitense e dell’enorme deficit di bilancio federale americano ha suscitato preoccupazioni sul ruolo del dollaro statunitense come valuta di riserva mondiale, siamo convinti che gli investitori non debbano preoccuparsi del biglietto verde: per default e per design, il dollaro rimane il perno finanziario dell’economia globale. Che si tratti di transazioni di cambio estero (88% del totale globale), riserve delle banche centrali (58% del totale globale), fatturazione del commercio globale (50%), pagamenti globali SWIFT (46%), il dollaro domina. Il declino del dollaro è molto esagerato.

Storicamente, il rendimento totale medio annuo composto dell’S&P 500 è stato dell’11,5%. Sì, gli investitori sono stati spiazzati dalla minaccia delle tariffe statunitensi quest’anno e spaventati dal deficit di bilancio federale americano, oltre a essere frustati da iniziative politiche. Ma in mezzo alla nebbia e all’incertezza del mercato, e assumendo una visione a lungo termine, gli investitori non dovrebbero dimenticare o sottovalutare il fatto che l’S&P 500, sostenuto dall’economia più dinamica del mondo, rimane una delle più grandi macchine generatrici di ricchezza mai create al mondo. I titoli azionari statunitensi hanno nettamente superato altre classi di attività per decenni.

A cura di Antonio Tognoli, responsabile macro analisi e comunicazione di Cfo Sim

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