Dopo il Giorno della Liberazione, la combinazione di un crescente protezionismo commerciale e l’adozione “intermittente” di dazi da parte degli Stati Uniti ha alimentato timori crescenti riguardo all’atteggiamento degli investitori stranieri verso il debito americano. Secondo Antonio Tognoli, responsabile macro analisi e comunicazione di Cfo Sim, «dopo decenni di finanziamento degli elevati livelli di debito statunitense, gli investitori stranieri starebbero gradualmente riducendo la loro esposizione agli asset americani».
Il timore principale nasce dai possibili effetti a catena: «Rendimenti più elevati si traducono in maggiori costi di interesse e deficit più alti, senza contare le ricadute sul settore immobiliare statunitense, sulle piccole imprese e su altri segmenti dell’economia», osserva Tognoli. Eppure, nonostante queste criticità, gli investitori stranieri detengono ancora circa il 30% del debito pubblico americano.
Bond governativi Usa: la realtà
A ben guardare, però, la situazione appare meno allarmante di quanto suggeriscano certi titoli sensazionalistici. «Mentre gli stranieri restano i maggiori detentori del mercato dei titoli del Tesoro statunitense, la loro quota percentuale è in calo costante da anni», spiega Tognoli. La quota estera, che nel 2008 rappresentava il 57% di 5,8 trilioni di dollari di debito, è oggi diminuita, ma il volume assoluto è cresciuto sensibilmente. Il debito detenuto dal pubblico americano, infatti, è quasi quintuplicato nello stesso arco temporale, mentre le partecipazioni estere sono più che raddoppiate. Oggi il mercato dei titoli del Tesoro è composto da una platea di investitori sempre più diversificata: fondi comuni (18%), istituzioni finanziarie (15%), la Fed (14%) e famiglie private (10%).
Massimi storici nonostante le tensioni geopolitiche
Anche ampliando lo sguardo agli ultimi mesi, i dati confermano il perdurare dell’interesse straniero. «Le partecipazioni estere di titoli del Tesoro statunitensi hanno toccato un massimo storico di 9 trilioni di dollari a marzo 2025», rileva Tognoli. Rispetto a febbraio, l’aumento è stato di 233 miliardi di dollari, mentre nell’arco di un anno la crescita è stata di quasi un trilione.
Molti puntano il dito su Giappone e Cina come principali venditori di titoli statunitensi, ma anche in questo caso il quadro è più articolato. «Le partecipazioni del Giappone hanno raggiunto il picco nel novembre 2021, mentre quelle della Cina si sono stabilizzate già a fine 2013, o nel 2015 se consideriamo anche Hong Kong», precisa l’analista.
La diversificazione degli investimenti cinesi
Per quanto riguarda la Cina, va inoltre considerata la maggiore diversificazione del portafoglio. «Le vendite di titoli del Tesoro vanno lette alla luce delle consistenti partecipazioni in depositari esteri, come Belgio o Lussemburgo, e dell’aumento degli investimenti in altri asset statunitensi», spiega Tognoli. Le partecipazioni cinesi in azioni Usa, ad esempio, ammontavano a 343 miliardi di dollari a marzo 2025, in netto rialzo rispetto ai 205 miliardi di inizio decennio.
Il futuro dipende dai flussi commerciali
Guardando al lungo periodo, Tognoli avverte che «se gli Stati Uniti vogliono davvero mantenere deficit commerciali più bassi con il resto del mondo, gli stranieri avranno meno dollari da reinvestire nei titoli statunitensi». Tuttavia, nel breve termine il rischio di un “fuggi fuggi” appare contenuto: «Non ci aspettiamo un esodo massiccio nonostante quanto possano suggerire i titoli dei giornali. Il mercato dei titoli del Tesoro Usa rimane, secondo noi, il più sicuro e il più attraente del suo genere a livello globale».