In un’epoca in cui gli investitori sono alla ricerca di punti di riferimento semplici per navigare i mercati finanziari, il rapporto prezzo/utili (P/E) continua a essere uno degli indicatori più utilizzati. Ma è davvero sufficiente per orientare le decisioni d’investimento? Secondo Franz Weis, CIO, Analyst/Portfolio Manager e Managing Director delle strategie azionarie europee di Comgest, la risposta è no. Al contrario, affidarsi troppo al P/E potrebbe rivelarsi una scelta rischiosa.
La “trappola del valore”
“Fare troppo affidamento sui bassi rapporti P/E può condurre gli investitori in una pericolosa trappola del valore“, avverte Weis. Il problema nasce quando si prende in considerazione il P/E al valore nominale, usandolo come criterio guida per selezionare titoli e costruire portafogli. Una scelta, questa, che risulta particolarmente problematica nel caso delle cosiddette società quality growth, ovvero aziende con fondamentali solidi e una crescita sostenuta degli utili.
Il limite degli utili stimati
Un primo nodo critico è la “E” del rapporto P/E, ossia gli utili. “Negli ultimi anni abbiamo assistito a continue revisioni al ribasso delle stime di consenso sugli utili”, spiega Weis, sottolineando come le previsioni degli analisti siano spesso volatili e poco affidabili.
Inoltre, il P/E è per sua natura un indicatore a breve termine: riflette in genere solo gli utili attesi nei successivi 12 mesi. “Il valore di una società è invece l’attualizzazione, secondo un tasso corretto per il rischio, dei flussi di utili futuri attesi, che vanno ben oltre i prossimi 12 mesi”, chiarisce Weis.
Un metro per la crescita zero
Anche se il P/E è uno strumento semplice da usare, si fonda su ipotesi che raramente rispecchiano la realtà delle aziende in crescita. “Si basa sull’idea che una società distribuisca il 100% dei propri utili”, osserva Weis. Un approccio valido, forse, solo per imprese mature e prive di prospettive di sviluppo.
L’approccio Comgest: puntare sulla qualità
“In Comgest facciamo esattamente l’opposto”, afferma Weis. Invece di inseguire titoli con P/E basso, l’attenzione si concentra su società di alta qualità e con solide prospettive di crescita. “Prendiamo in considerazione società come EssilorLuxottica o Microsoft, che hanno registrato una crescita annuale degli utili superiore al 10% per diversi anni”. In questi casi, un P/E forward a un anno risulta “privo di significato come strumento isolato per la costruzione del portafoglio”.
Questo non significa ignorare completamente le valutazioni: “Le monitoriamo e adattiamo il dimensionamento delle posizioni di conseguenza. Ma non ci buttiamo sui titoli a basso P/E solo perché appaiono sullo schermo”.
Anche il DCF ha i suoi limiti
Perfino i modelli di discounted cash flow (DCF), ritenuti più sofisticati, non sono esenti da problemi. “Nessuno può prevedere con certezza gli utili o il flusso di cassa disponibile di una società a cinque anni da oggi”, commenta Weis. Anche le ipotesi sui tassi di sconto, fondamentali nei DCF, possono introdurre margini di errore significativi.
La visione di lungo periodo
Quella proposta da Comgest non è una negazione della rilevanza delle valutazioni, bensì un invito a non farne l’unico pilastro di una strategia. “Siamo semplicemente convinti che, in una strategia di crescita, la valutazione non dovrebbe essere il punto focale della selezione titoli o della costruzione del portafoglio”, dichiara Weis.
Gli investitori quality growth devono quindi guardare oltre i numeri di breve termine, lasciando che le società “cristallizzino il valore incorporato nelle loro traiettorie di crescita a lungo termine”. Il focus, per Weis, deve restare sulla “visibilità e durata della crescita futura degli utili”, qualità che dipendono da fondamentali come pricing power, innovazione, ricavi ricorrenti, solidità del management ed efficienza del capitale.