Trump e la nuova politica Usa: la view di Invesco

A cura di John Greenwood, Chief Economist di Invesco
Negli Stati Uniti, Donald Trump è diventato ufficialmente presidente il 20 gennaio 2017 e i Repubblicani da qualche giorno controllano entrambi i rami del Congresso. Trump ha proposto diverse misure di stimolo fiscale, tra cui tagli alle imposte sulle persone fisiche e giuridiche e una nuova forma di spese in infrastrutture che si basa essenzialmente su finanziamenti del settore privato con ricorso al debito.
La nuova amministrazione, in collaborazione con il Presidente della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, e il Presidente del Ways and Means Committee Kevin Brady, sembra inoltre valutare il passaggio a un sistema fiscale sul paese di destinazione in cui la giurisdizione fiscale si basa sul luogo di vendita dei beni o prestazione dei servizi, non sul luogo di produzione. Ciò potrebbe incentivare un notevole spostamento della produzione verso il territorio nazionale statunitense rispetto all’attuale regime fiscale che ha consentito – secondo alcuni incoraggiato – la delocalizzazione di posti di lavoro e produzione.
Questi piani hanno lo scopo di rafforzare la crescita e incoraggiare il rimpatrio di capitali detenuti all’estero. Trump intende inoltre riformare l’Affordable Care Act (ponendo fine agli incentivi all’assunzione di lavoratori per sole 29 ore settimanali), abolire le restrizioni alla produzione di energia (liberalizzando scisti, petrolio, gas naturale e carbone pulito), consentire la costruzione di un maggior numero di gasdotti e oleodotti e rivedere il Dodd Frank Act sulla regolamentazione bancaria. Sorprendentemente, Trump mira a conseguire un tasso di crescita pari ad “almeno il 3,5 % o addirittura il 4 %”. 
Malgrado alcuni potenziali risparmi derivanti da una riduzione degli oneri normativi e dall’abolizione dei contributi statunitensi ai programmi ONU per il cambiamento climatico, il deficit fiscale federale USA sembra destinato a salire, come all’epoca del Presidente Ronald Reagan. I deficit fiscali, oltre a beneficiare dei risparmi di costi diretti, possono essere finanziati unicamente mediante tre fonti: tassazione, indebitamento o creazione di nuova moneta e credito (come nel caso degli stimoli fiscali in Cina nel periodo 2008-2010).
Poiché la tassazione è esclusa per definizione e la Fed non collaborerà sicuramente a un’arbitraria stampa di moneta (in considerazione  dell’aumento dei tassi a dicembre 2016 e dei probabili altri due o tre aumenti nel 2017), l’indebitamento diventa l’unica soluzione per finanziare questi deficit. Non sorprende che dopo le elezioni presidenziali dell’8 novembre, i rendimenti obbligazionari siano saliti, le previsioni d’inflazione si stiano rafforzando e il dollaro abbia registrato un apprezzamento.

Trump e la politica estera. Per quanto riguarda la politica estera, Trump ha dichiarato l’intenzione di rinegoziare il North American Free Trade Agreement (NAFTA) per il libero scambio, ritirare gli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership (TPP) e imporre dazi consistenti sui “manipolatori valutari” al fine di arrestare l’afflusso di acciaio prodotto con sussidi illegali e altri materiali industriali chiave a prezzi inferiori a quelli di mercato.
Se l’amministrazione Trump pianificasse l’adozione di scambi commerciali veramente liberi rispetto a questi ampi accordi di
managed trade, ossia di scambi regolati, si avrebbero chiari benefici, ma sembra invece intenzionata ad adottare un modello di managed trade ancora più ampio.
Trump ha intenzione di scoraggiare la delocalizzazione di posti di lavoro da parte di specifiche società statunitensi, una politica di cui ha dato dimostrazione il 1° dicembre 2016 recandosi alla divisione di produzione di condizionatori Carrier della United Technologies in Indiana. In linea di massima, mira a ripristinare l’occupazione nei settori manifatturiero, minerario, forestale, siderurgico, dell’alluminio e altre industrie pesanti.
Oltre ad andare contro i principi fondamentali del vantaggio comparato, un problema di questa strategia è che non tiene conto, per usare il titolo di un saggio dell’economista francese Frederic Bastiat, vissuto nel XIX secolo, di “ciò che si vede e ciò che non si vede”, ossia i guadagni in termini dei pochi posti di lavoro visibili presumibilmente salvati rispetto alle perdite, piccole ma diffuse e invisibili, subite da consumatori o imprese che non beneficiano più di importazioni meno costose. Se questo genere di managed trade orientato ai posti di lavoro viene applicato su ampia scala, senza le suddette modifiche fiscali, l’amministrazione è destinata a finire rapidamente coinvolta in una pletora di operazioni specifiche per singole società, con benefici economici complessivi estremamente dubbi.
Il programma di Trump punta a ricostruire i punti di forza fondamentali dell’economia americana conferendo un forte slancio a famiglie e imprese statunitensi. Tuttavia, esiste  anche il rischio che il suo genere di micro-gestione “caudillo capitalista” o intervento nelle decisioni di singole società possa controbilanciare i potenziali guadagni macroeconomici, quali minori imposte, spese in infrastrutture, minore regolamentazione e crescita più elevata.
Alla luce dell’eredità economica straordinariamente favorevole di Trump, banche e famiglie con bilanci sostanzialmente risanati, bassa inflazione e rafforzamento dell’espansione economica, sarebbe un peccato se i fattori micro avessero il sopravvento sui macro. Ci attendiamo un miglioramento della crescita del PIL reale al 2,4 % nel 2017 e al 2,6 % nel 2018, con un aumento dell’inflazione dei prezzi al consumo (CPI) al 1,6 % nel 2017.

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