Il rialzo del dollaro è ancora un rischio per i Mercati Emergenti?

A cura di Raiffeisen Capital Management

La maggior parte dei mercati azionari dei paesi emergenti (EM) ha iniziato molto bene l’anno nuovo. Con un aumento del 5% l’indice MSCI EM ha registrato un incremento quasi doppio rispetto all’indice di riferimento dei paesi industrializzati. Sono aumentati in modo particolarmente significativo i mercati dell’America Latina (Brasile +7,5%, Argentina addirittura oltre il 12%). Il “driver” principale di questo buon andamento dei corsi delle azioni dei paesi emergenti è stato il calo del dollaro USA. Dopo il forte rialzo degli ultimi mesi, la valuta USA ha corretto nettamente al ribasso all’inizio del 2017. Le dichiarazioni di Donald Trump sul fatto che un dollaro troppo forte sia dannoso per l’economia USA sono state una buona occasione per scatenare una correzione sui mercati valutari comunque già attesa da tempo. I trend al rialzo a breve e lungo termine del dollaro USA sono, però, ancora intatti.

Dollaro USA: fine del rialzo o solo una pausa? La domanda globale di dollari USA al di fuori degli Stati Uniti attualmente sembra crescere molto di più dell’offerta disponibile. La conseguente carenza finora è stata colmata soprattutto dalle vendite di titoli di Stato USA da parte delle banche centrali estere. Contribuiscono in particolar modo i deflussi di capitale dalla Cina. Nel 2016 questi sono calati rispetto al 2015, ma sono tuttora relativamente elevati e negli ultimi mesi hanno mostrato una tendenza verso un nuovo aumento. Ciò viene anche messo in evidenza dalle riserve in valuta degli Stati Uniti che nel 2016, come già nel 2015, sono diminuite in misura notevole, anche se il cuscinetto è tuttora abbastanza confortevole.

Gli interessi per i prestiti in dollari sono inoltre sensibilmente cresciuti. I paesi emergenti (eccetto la Cina) hanno circa 5.000 miliardi di dollari di debito in essere. Un aumento degli interessi in dollari potrebbe far sì che i debitori paghino o coprano (debbano coprire) i loro debiti, il che comporterebbe un’ulteriore domanda di dollari USA. Un nuovo rialzo del dollaro continua, dunque, a rimanere uno dei fattori di rischio maggiori per le azioni, obbligazioni e valute dei paesi emergenti.

Si avvicinano le prime misure protezionistiche di Trump Sui mercati finanziari si continua ancora in larga misura a ignorare le possibili conseguenze delle misure protezionistiche annunciate dalla nuova amministrazione Trump. È evidente che un gran numero di operatori di mercato ritiene che Trump, ora che ha assunto il suo incarico, alla retorica della campagna elettorale farà seguire solo limitatamente delle azioni conseguenti. Questo potrebbe rivelarsi soltanto un’illusione. Il discorso inaugurale del nuovo presidente americano insolitamente duro da un punto di vista storico, in realtà ha segnalato molto chiaramente che Trump intende assolutamente tener fede alle sue dichiarazioni relative a tutte le principali tematiche. Questo viene confermato anche da tutte le sue decisioni personali fin qui prese. Da quanto si evince finora, sembrano esserne interessati in primo luogo alcuni (ma non tutti) paesi emergenti asiatici, così come naturalmente il Messico. Allo stato attuale, invece, il Sudamerica non dovrebbe perlopiù esserne interessato.

Nelle ultime settimane, le obbligazioni della maggior parte dei paesi emergenti hanno mostrato un andamento relativamente solido, nonostante il netto rialzo dei rendimenti USA in essere da novembre. Per quanto riguarda le valute, la lira turca in forte calo è un’eccezione eclatante. I crescenti squilibri economici e il difficile equilibrio delle banche centrali, impossibile da mantenere nel lungo periodo, sembrano intanto iniziare a farsi sentire

Cina
I più recenti dati congiunturali della Cina mostrano un quadro eterogeneo. Innanzitutto gli aspetti positivi: Gli indici dei direttori d’acquisto segnano chiaramente una continuazione dell’espansione, in particolare per quanto riguarda le piccole e medie imprese e nel settore privato. Al contrario, la crescita sta rallentando soprattutto nel settore industriale, una conseguenza degli sforzi del governo di raffreddare il settore immobiliare. Il settore dei servizi contribuisce intanto per circa il 50% alla crescita economica, il suo peso sempre maggiore dovrebbe rendere contenti i pianificatori di Pechino. Come previsto, nel 4° trimestre, l’economia è cresciuta complessivamente del 7,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, in questo modo si dovrebbe raggiungere l’obiettivo fissato per il 2016 di una crescita in termini reali pari al 6,7% circa. Allo stesso tempo si stanno stabilizzando i dati sull’inflazione. Nei prossimi mesi questa dovrebbe aumentare moderatamente. Queste sono notizie buone, specialmente per le imprese pubbliche altamente indebitate. Ciò implica la prospettiva di maggiori ricavi e utili, mentre i debiti calano in termini reali per effetto dell’inflazione. Si può, quindi, prevedere che la banca centrale continuerà a portare avanti una politica monetaria espansiva nonostante un leggero aumento dei prezzi. I dati relativi al commercio sono stati meno positivi. A dicembre, l’aumento delle importazioni e la diminuzione delle esportazioni hanno fatto sì che l’eccedenza della bilancia commerciale pari a 40 miliardi di dollari abbia registrato un livello sorprendentemente basso. Si sono rivelati, però, molto più gravi gli sviluppi negativi della valuta e dei flussi di capitale. Fino a novembre 2016 dal paese sono usciti circa 635 miliardi di dollari, il 10% in più rispetto al 2015. I dati di dicembre evidenzieranno probabilmente una continuazione del trend. Di conseguenza, le riserve cinesi in valuta estera scenderanno di circa 320 miliardi di dollari a 3.011 miliardi di dollari. Questo è meno del record del 2015, quando diminuirono di oltre 500 miliardi di dollari, ma non è certo un motivo per festeggiare. Perché, nonostante tutti gli sforzi di Pechino per supportare lo yuan, nel 2016 la valuta cinese ha perso il 6,6% rispetto al dollaro, il deprezzamento più forte dal 1994. Naturalmente altre valute hanno perso ancora di più. Il pericolo è, però, che questo trend al ribasso acceleri; il cambio al potere e il cambio della politica a Washington rimangono dei fattori di rischio in questo senso. Il problema per la banca centrale sta nel fatto che ogni contromisura attuata tramite un intervento sui cambi (come era stato fatto più volte nel 2016) comporta notevoli conseguenze per la liquidità e la crescita del credito in Cina. Il rischio di un’ulteriore svalutazione dello yuan è, quindi, tutto sommato abbastanza alto. Le azioni A cinesi quotate sul continente a gennaio hanno registrato un incremento poco inferiore al 2%, le azioni H quotate a Hong Kong hanno guadagnato oltre il 4%.

India
L’India continua a far fronte alle conseguenze della riforma monetaria del premier Modi. La banca centrale intanto ha posticipato i propri programmi. Se tutto va bene, entro la fine di febbraio dovrebbe di nuovo essere disponibile circa il 70% del contante improvvisamente ritirato a novembre. Nel frattempo, il FMI ha rivisto al ribasso di un punto percentuale le sue previsioni sulla crescita economica dell’India per quest’anno, portandole al 6,6%. Nelle ultime settimane il governo ha più volte cambiato le sue motivazioni in merito alla “terapia d’urto”, che soprattutto per centinaia di milioni tra gli indiani più poveri è stata sinonimo di tagli estremi. Se all’inizio l’obiettivo era soprattutto quello di svalutare il denaro sporco, successivamente il focus si è spostato sull’eliminazione della contraffazione delle banconote, ampiamente diffusa, e nel frattempo l’accento è stato posto sull’importanza del “progresso tecnologico” verso una società senza contanti, che implica un ampliamento della base imponibile. In fin dei conti sono state consegnate quasi tutte le vecchie banconote per essere scambiate e la banca centrale ha dichiarato che tra di esse non ci sarebbero quasi state banconote contraffatte. La “guerra al contante” in teoria era però il motivo principale dell’azione intrapresa dal governo insieme a un programma di identificazione biometrica chiamato “adhaar” che, da un lato, punta a creare un “cittadino completamente trasparente” in India. Dall’altro, questa terapia d’urto ha effettivamente comportato che soprattutto nelle città persino i commercianti più piccoli sono stati costretti ad adattarsi in tempi brevi ai sistemi di pagamento elettronici. Una forza trainante dietro a questa misura sembra essere l’alleanza “Meglio del Contante”, un consorzio mondiale che si prefigge l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita proprio delle persone più povere tramite la loro integrazione nei sistemi di pagamento elettronici. Tra i principali sponsor troviamo i grandi emittenti di carte di credito attivi a livello globale, nonché diversi giganti dell’IT. Tutte aziende che, da un lato possono creare i necessari requisiti tecnologici per concretizzare questo cambiamento ma che, dall’altro, hanno anche molto da guadagnare dall’aggiunta di miliardi di nuovi utilizzatori dei loro servizi. La popolazione sembra continuare a supportare a larga maggioranza, almeno nelle città, la misura estrema di Modi, nonostante tutte le difficoltà. Il mercato azionario indiano ha registrato un inizio anno positivo in accordo con il trend globale e a gennaio ha guadagnato circa il 4%.

Brasile
Il Brasile dovrebbe aver superato il punto più basso della recessione, ma uscire dalla crisi sarà un percorso lento e tortuoso. La ripresa del prezzo del petrolio è indubbiamente un grande aiuto, come anche il fatto che l’inflazione sta calando e che, di conseguenza, la banca centrale nei prossimi mesi effettuerà molto probabilmente una serie di ulteriori tagli dei tassi d’interesse. Dopo il taglio del tasso guida dello 0,75% al 13%, le autorità monetarie del Brasile hanno segnalato di volerlo abbassare al di sotto del 10% nel corso dell’anno. Gli analisti, tuttavia, stanno smorzando le speranze di una rapida ripresa economica. Perché l’indebitamento delle famiglie e delle imprese è talmente alto e la situazione reddituale così precaria che la domanda di prestiti quasi sicuramente non ripartirà in tempi brevi, nonostante gli interessi in calo. Negli ultimi due anni le famiglie brasiliane hanno speso circa il 40% del proprio reddito per ripagare i debiti. Le cose non vanno certo meglio per le imprese. Quasi un’azienda su due quotata in borsa nell’ultimo trimestre non ha nemmeno generato un cash flow sufficiente per poter pagare gli interessi sui propri debiti. Allo stesso tempo, le banche attualmente trasferiscono a fatica i tagli dei tassi guida ai clienti. Nonostante la contrazione dell’economia, il real è stato una delle valute più forti a livello globale nel 2016. Una delle ragioni dovrebbe essere l’eccedenza della bilancia commerciale del Brasile, che l’anno scorso ha raggiunto un livello record con quasi 48 miliardi di dollari. Certamente non grazie al boom delle esportazioni, ma a causa del crollo delle importazioni a seguito della grave recessione.
Già nel 2016 la ripresa dei prezzi delle materie prime e la speranza di un’inversione di tendenza dell’economia avevano portato a un aumento dei prezzi delle azioni. L’indice Bovespa è salito del 40% circa ed è continuato a salire anche nel 2017 con un forte incremento di oltre il 7% a gennaio.

Russia
L’economia della Russia ha in gran parte finito di adattarsi ai bassi prezzi del petrolio e al regime delle sanzioni dell’Occidente. Per il momento, nessuna delle due rappresenta più una minaccia esistenziale, almeno non finché il prezzo del petrolio continuerà a quotare tra i 40 e 60 dollari USA. L’aspetto invece meno positivo è che il paese opera praticamente “al minimo”. Ciò vale in particolare per una significativa parte della popolazione che negli ultimi anni ha subito notevoli perdite in termini di salari reali.
Considerando la situazione precaria nel lungo periodo, il presidente Putin alcuni mesi fa ha incaricato l’ex ministro delle finanze Kudrin di formulare entro aprile delle proposte di riforma per un ritorno della Russia verso la crescita.
In ogni caso senza profondi cambiamenti strutturali la Russia rischia una stagnazione continua, un ritardo tecnologico sempre maggiore e, prima o poi, una crisi sociale. A lungo termine, però, c’è bisogno di qualcosa in più dei prezzi del petrolio stabili o in aumento per ritornare a un percorso di crescita solido. Dopo un 2016 molto buono, il mercato azionario russo ha chiuso il mese di gennaio in modo leggermente più debole, mentre il rublo è rimasto quasi invariato.

Turchia
Per l’economia turca l’anno nuovo è iniziato particolarmente male. La svalutazione della valuta nazionale ha subito un’accelerazione e non ci sono buone probabilità di fermarla in modo duraturo. Rimane solo la scelta tra diverse alternative sfavorevoli. Con grande sorpresa degli operatori di mercato, la banca centrale ha deciso di non stabilizzare la lira tramite un aumento dei tassi d’interesse. Ha invece abbassato i coefficienti di riserva per le banche relativamente alle valute estere e ha soltanto aumentato il tasso d’interesse overnight sui prestiti. Sia la pressione politica da parte del presidente, sia le riflessioni di tipo economico hanno probabilmente scoraggiato la banca centrale da un rialzo dei tassi d’interesse. Tuttavia, non è per nulla chiaro, se l’aumento largamente atteso dei tassi d’interesse dello 0,50% (dall’attuale 8%) potrà in realtà supportare in modo duraturo la lira. In cambio, un significativo rialzo dei tassi d’interesse potrebbe immediatamente far precipitare in una recessione l’economia turca già fortemente provata ed estremamente dipendente dai prestiti esteri. Ma, d’altra parte, considerando i tassi d’interesse attuali, la lira non offre praticamente rendimenti reali positivi agli investitori esteri. Negli ultimi tre anni l’inflazione è stata in media superiore all’8%. Per attirare il capitale estero urgentemente necessario sarebbero quindi fondamentali tassi nominali più alti. Di più. La svalutazione della lira (che nei confronti del dollaro ha perso circa il 20% da novembre) dovrebbe ulteriormente alimentare l’inflazione a causa dell’aumento dei prezzi delle importazioni e rendere, di conseguenza, ancora meno attraente la valuta: un vero circolo vizioso. La dichiarazione della banca centrale di agire sul fronte dei tassi d’interesse in caso di un ulteriore aumento dell’inflazione potrebbe dunque ben presto essere messa al vaglio per verificare la sua serietà. Come altra misura restano le restrizioni ai movimenti dei capitali. Le recenti dichiarazioni del presidente Erdogan di dare la colpa della situazione agli investitori e speculatori esteri non rendono proprio più improbabile un tale passo. Il mercato azionario si è mostrato largamente indifferente alle turbolenze e a gennaio ha guadagnato oltre il 10%, in valuta locale. È interessante notare che i titoli bancari sono rimasti ampiamente stabili nonostante i corsi obbligazionari in calo e la lira debole. Potrebbe, tuttavia, trattarsi di una resistenza temporanea e falsa. Tutto ciò considerato, per ora rimaniamo molto cauti nei confronti della Turchia.

Grecia
Per la prima volta da tempo nel 2016 la Grecia dovrebbe essere cresciuta leggermente e nel 2017 questa crescita potrebbe salire all’1,5 – 2%. Il governo e i creditori prevedono addirittura un 2,7%, ma ciò sembra molto ottimistico. Nel frattempo le trattative relative a un taglio del debito non fanno progressi e, proprio per questo, viene sempre più ritardato il completamento secondo round di verifica dell’attuale “programma di aiuto”. Questo è, però, il prerequisito affinché la BCE possa di nuovo acquistare titoli di Stato greci. Atene, Bruxelles e il FMI si attribuiscono a vicenda la responsabilità. Continuano a sussistere profonde divergenze di opinioni, specialmente tra la Germania e il FMI. Il FMI sembra intanto deciso a non partecipare a nessun nuovo programma d’aiuto, perché in accordo con i propri statuti non è presente la condizione essenziale, vale a dire la sostenibilità del debito. Secondo il FMI per questo sarebbero necessari altri tagli alle pensioni, nonché un significativo taglio del debito in qualsivoglia forma. La Germania non è pronta a nessun taglio del debito, insiste, però, allo stesso tempo su una continua partecipazione del FMI. La Grecia può far poco per risolvere questo conflitto e rischia di essere letteralmente sgretolata nel corso di questo blocco continuo tra Eurogruppo e FMI. Se si considera che negli ultimi otto anni le famiglie dei pensionati greci hanno perso circa il 43% del loro reddito, sembra più che assurdo richiedere ulteriori tagli. Tanto più che nel frattempo devono anche spesso sfamare figli e nipoti. Dopo un inizio anno particolarmente positivo, il mercato azionario greco ha subito una netta correzione verso la fine del mese dopo un incontro dell’Eurogruppo e alla fine ha perso circa il 5% a gennaio.

Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria
I paesi della regione centroeuropea guardano all’anno nuovo con ottimismo. La crescita economica dovrebbe di nuovo salire al 3%. Le preoccupazioni sulla deflazione per il momento appartengono al passato, perché l’inflazione dovrebbe registrare un forte aumento soprattutto nel primo trimestre. Un ulteriore forte aumento non è, tuttavia, prevedibile dal punto di vista odierno. Per questo motivo la politica monetaria delle banche centrali dovrebbe continuare a restare espansiva. A metà anno potrebbe diventare interessante la situazione della corona ceca. La banca centrale vorrebbe di nuovo lasciar fluttuare liberamente il cambio rispetto all’euro che ha vincolato artificialmente da anni. Mentre molti investitori e osservatori si aspettano una forte rivalutazione della moneta ceca, la banca centrale si è mostrata calma; non prevede un tale movimento di mercato. Inoltre, in seguito non vorrebbe introdurre tassi negativi. Di fronte al fatto che la banca centrale ha dovuto intervenire di nuovo contro la propria valuta con svariati miliardi anche all’inizio dell’anno, queste previsioni sembrano, tuttavia, molto ottimistiche.

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