Il governo britannico molla gli ormeggi, abbandona l’Ue, ma salpa per una destinazione ignota

A cura di Amundi Am
Mercoledì 29 marzo, il primo ministro britannico ha firmato la lettera ufficiale da inviare al  Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, in cui è stato invocato l’Articolo 50 del Trattato di Lisbona. Tale lettera è poi stata consegnata personalmente l’indomani dall’ambasciatore britannico a Bruxelles. Il 29 aprile si terrà un consiglio straordinario dei 27 Paesi dell’Unione  europea per fissare le procedure e i principi negoziali. La Brexit è ormai irrevocabile.
L’Articolo 50 prevede che il Regno Unito abbia due anni di tempo per negoziare i nuovi trattati  commerciali con i partner europei. Se alla fine di tale periodo non si giungerà a una soluzione concordata, si applicheranno le norme dell’OMC (l’Organizzazione mondiale del commercio). Theresa May continua a sostenere che “nessun accordo è meglio di un cattivo accordo“. E si profilano già numerosi ostacoli. Per esempio, la May si rifiuta di garantire i diritti dei cittadini dell’UE che risiedono nel Regno Unito. Nonostante si tratti probabilmente di una tattica negoziale, è comunque piuttosto emblematica del suo pensiero.
L’inizio di un lungo periodo di negoziati. Nessuno dei modelli esistenti di relazioni con l’UE (Svizzera, Norvegia e Turchia) piace al governo inglese, che desidera negoziare degli accordi “su misura” che al momento sono piuttosto indefiniti. Il numero delle questioni da affrontare è immenso: accesso al mercato unico per gli esportatori, la possibilità per le banche britanniche di servire i clienti continentali, i flussi migratori, i diritti dei cittadini dell’UE che vivono nel RU e i diritti dei cittadini britannici che vivono nell’UE eccetera. Nessuno ha mai visto risolvere problemi tanto complessi in soli due anni, e ciò aumenta le probabilità di una “hard Brexit”, ovvero di   un’uscita dall’UE senza alcun accordo.
L’Europa adotterà una posizione molto ferma e non scenderà a compromessi riguardo alle quattro libertà fondamentali (libero movimento delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali) che rappresentano uno dei capisaldi del mercato unico. Infatti, con l’ascesa in tutta Europa dei partiti euroscettici, il tema dell’”Europa à la carte” potrebbe finire col destabilizzare l’intera UE.
L’uscita del RU dall’UE sposta il centro di gravità di quest’ultima verso l’Europa continentale. É giunto il momento di rafforzare la partnership francotedesca. Non dobbiamo attenderci progressi sostanziali nelle trattative prima delle elezioni tedesche (24 settembre). I Paesi dell’UE dovranno darsi da fare e ripensare il modello politico e istituzionale dell’Europa, probabilmente spingendo per una maggiore integrazione attorno ad alcuni Paesi core.
L’unità del Regno Unito è in forse. Gli indipendentisti chiedono un nuovo referendum  sull’indipendenza (il 62% degli scozzesi ha votato a favore della permanenza nel RU). Tuttavia, i sondaggi d’opinione indicano un calo del supporto popolare all’indipendenza. Nel frattempo, nell’Irlanda del nord, i nazionalisti del Sinn Fein chiedono di andare alle urne per votare a favore dell’uscita dal Regno Unito e dell’unione con la Repubblica d’Irlanda.
Si prevede che l’uscita del RU dall’UE avrà un forte impatto sull’economia britannica, ma ridotto sull’economia dei partner europei. Nel RU, c’è il rischio di assistere a uno shock di fiducia man mano che si avvicinerà la scadenza dell’uscita dall’UE. La pressione aumenterà durante le  trattative (soprattutto nel 2018), e potenzialmente si avrà (1) un aumento del tasso di risparmio  delle famiglie (risparmi precauzionali), (2) maggior prudenza delle imprese riguardo agli investimenti e alle assunzioni e (3) un rallentamento degli afflussi di capitali. Più a lungo termine, la maggior parte degli studi ipotizza un impatto negativo duraturo sul PIL e prevede, da qui al 2020, una perdita di attività nel RU tra il 3% e il 9%.

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