Un terzo delle fees? Nessuno scandalo

Ai consulenti finanziari un terzo dei ricavi da commissione. Quando Maurizio Bufi, presidente di Anasf, ha lanciato il sasso nello stagno lo scorso 6 febbraio al convegno inaugurale di ConsulenTia a Roma, molti dei capiazienda di banche e reti e degli asset manager presenti in sala hanno storto il naso. La richiesta è a loro parsa, infatti, eccessiva e probabilmente addirittura poco o per nulla giustificata, tenuto conto che oltretutto pescava nelle loro tasche. Quasi contemporaneamente a ConsulenTia, usciva un illuminante report di Gianluca Ferrari, brillante analista di Mediobanca, il quale sostiene che Poste Italiane possa essere in un futuro non lontano un concorrente temibile per le banche-reti: infatti su un totale di 506 miliardi di euro di attività finanziarie dei clienti di Poste, il segmento affluent (con asset tra 75mila e 500mila euro) rappresenta il 50% (vale a dire oltre 250 miliardi di euro), mentre i clienti private (con 500mila euro e più) rappresentano circa 30 miliardi di patrimonio.

La società sta attualmente rivisitando il suo intero modello realizzato da 8mila relationship manager e, per quanto riguarda il pricing, l’assenza di un cf da remunerare consente a Poste di addebitare dei total expense ratio 50-60 punti base al di sotto degli asset gatherer italiani senza commissioni di performance. Quel 30% è dunque ingiustificato? Alcune indagini a campione, per quanto non esaustive, assegnano alla produzione delle “fabbriche prodotto” tra il 30% e il 40% dei costi sostenuti dai clienti ed alla distribuzione una quota dal 60% al 70%, di cui una consistente parte remunera la società di intermediazione e una parte restante è riconosciuta al consulente. Il settore dell’asset management, a partire dall’affermarsi della gestione passiva nel mercato americano e in quello dei paesi più evoluti, è già in piena ristrutturazione; molte società abbattono drasticamente i costi degli strumenti finanziari gestiti, altre si preparano a lanciare strumenti la cui commissione di gestione è quasi interamente collegata al risultato. E invece le banche-reti, strette tra esigenze di bilancio e obbligo di trasparenza, hanno difficoltà a prendere atto della necessità di abbattere i costi; solo qualcuna ha avviato un processo più virtuoso. Non si discute, ovviamente, la ricerca del profitto, funzionale alla necessità di investire nella rete, tuttavia, negli ultimi anni il dato più discutibile è l’alto livello di pay-out che va a remunerare non solo la società, ma a supportare con un contributo imponente l’utile dell’azionista di riferimento. La responsabilità e la consapevolezza di un investimento può passare anche per la totale trasparenza delle commissioni chieste ai clienti e alla ripartizione di esse tra gli attori della catena del valore e ciò sarebbe una prova di coerenza. Anche questo è chiedere troppo?

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