Pensioni italiane: quattro miti sfatati dai numeri

Troppe fake news sulle pensioni

Anche se l’Italia avrebbe bisogno “di un dibattito serio su tanti fronti legati alla crescita”, la sensazione diffusa è che alla fine la campagna per le elezioni politiche del 4 marzo si giocherà sempre sugli stessi temi: Europa, immigrazione e pensioni. Proprio su questo ultimo punto, notano gli esperti di AdviseOnly in uno degli ultimi post del loro blog, si giocherà un pezzo importante del futuro finanziario del paese, ma vi è il rischio che si dibatta a vuoto, senza alcuna verifica dei numeri.

Non andiamo in pensione più tardi di tutti

Sulle pensioni, circolano da tempo numerosi falsi miti, in primis che in Italia si vada in pensione più tardi che negli altri paesi europei. Ciò è vero in teoria (dato che la legislazione vigente prevede che gli uomini vadano in pensione a 67 anni e le donne a 66), ma l’introduzione di numerose forme di flessibilità riduce l’età effettiva di pensionamento ricordano gli esperti di AdviseOnly che citano i calcoli ufficiali dell’Ocse, da cui emerge come l’età effettiva di pensionamento in Italia sia di circa 62 anni, al di sotto della media dei paesi aderenti all’Ocse. Solo in Austria, Grecia, Belgio e Francia si va in pensione prima, in effetti.

La spesa pensionistica è tra le più elevate

Anche il mito che in Italia si spenda meno per le pensioni è falso: in Europa siamo anzi tra i paesi che spendono di più sia in termini di Prodotto interno lordo (Pil), sia in termini di reddito pro-capite. Solo la Grecia in relazione al Pil e il Lussemburgo, la Francia e la Danimarca in termini di reddito pro-capite, spendono leggermente più di noi, in tutti gli altri paesi europei si spende meno sotto entrambi i profili. I pensionati italiani, insomma, sono tutto fuorché “poveri”, anche se si ritengono tali.

Assegni modesti a causa di stipendi modesti

Questa realtà è confermata anche dal confronto a livello di assegni pensionistici: quelli italiani non sono assolutamente i più bassi visto che, in media, un lavoratore dipendente riceve un assegno di vecchiaia di 703 euro mensili, una cifra modesta ma (purtroppo) in linea con gli stipendi medi ricevuti durante la vita lavorativa. Il tasso di sostituzione netto, rispetto al salario medio, è infatti tuttora pari al 93,2%, contro una media Ocse del 62,9%. Più degli italiani, in relazione ai salari ricevuti durante la vita lavorativa, prendono solo i portoghesi, con un tasso di sostituzione netto pari al 94,4%.

I politici sembrano ignorare la realtà

Solo parzialmente vero, infine, che il sistema pensionistico italiano sia ormai al sicuro: le recenti riforme del sistema pensionistico (che alcune forze politiche già promettono di abrogare in caso di vittoria elettorale, ndr), notano gli uomini di AdviseOnly, “hanno aiutato a migliorare la sostenibilità finanziaria di lungo termine, ma non possono far miracoli: l’Italia continuerà ad avere una spesa pensionistica superiore alla media europea”. Per questo, non avendo risorse infinite, se si decidesse di ridurre nuovamente l’età pensionabile o di aumentare gli stipendi pensionistici senza alcuna contromisura, si finirebbe col togliere risorse da altre parti o col provocare un futuro aumento delle tasse. “I mercati lo sanno. I politici italiani meno, oppure fanno finta di non saperlo” concludono gli esperti. Lo capiranno almeno gli elettori italiani?

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