Attenti ai risparmi, arriva l’armageddon obbligazionario

Contenuto tratto da www.buerating.com

Rimaniamo bene ancorati a un’attualità che vede le obbligazioni (in particolari quelle statali, si pensi allo spread) al centro dei pensieri dei risparmiatori, grazie a una interessante quanto “inquietante” analisi di Joseph V. Amato, President and Chief Investment Officer – Equities. Già, perchè sembrerebbe che ci siano diversi segnali di un imminente armageddon per i bond…

Mercoledì scorso, la pubblicazione di un altro rapporto estremamente positivo sull’occupazione statunitense (relazione ADP sui salari del settore privato) ha prodotto un’impennata dei rendimenti dei Treasury USA decennali al 3,25%, livelli mai visti da sette anni a questa parte. Si è trattato di un aumento violento, come non se ne vedevano da molto, molto tempo. Alle buone notizie della settimana scorsa per i lavoratori si è aggiunto martedì l’annuncio di Amazon di un aumento salariale, alimentando le fiamme dei rendimenti obbligazionari globali. E i dati diffusi venerdì sull’aumento dei salari e dell’occupazione negli Stati Uniti hanno tutt’altro che raffreddato la scena.

È forse questa la grande correzione dei tassi di interesse che gli investitori attendono ormai da anni? Stiamo finalmente assistendo agli effetti del cambio di politica monetaria della Federal Reserve? E gli investitori azionari dovrebbero preoccuparsi?

Contesto più rigido

L’aumento dei rendimenti obbligazionari può essere osservato da due angolazioni differenti. Da un lato, l’ottimo andamento dell’economia statunitense sembrerebbe giustificare senza ombra di dubbio tassi più elevati. L’aumento dei rendimenti è una risposta coerente con le buone notizie sul fronte economico: aumento dell’occupazione, aumento dei salari e accelerazione della crescita. E un tasso del 3,25% sulle obbligazioni decennali si può a malapena definire un “Armageddon obbligazionario”, quando la crescita del PIL reale viaggia al 3-4%, l’inflazione strutturale al 2,2% e la Federal Reserve sembra intenzionata ad operare tre rialzi dei tassi entro la fine dell’anno prossimo.

D’altro canto, la crescita del PIL reale al 3-4%, l’inflazione strutturale al 2,2% e i tre probabili rialzi dei tassi da parte della Federal Reserve entro la fine dell’anno prossimo potrebbero semplicemente costituire la tappa intermedia di un percorso che porta a un contesto molto più rigido. Nei cicli economici passati abbiamo osservato che l’aumento dei tassi da parte della Fed ha spesso prodotto pressioni sui mercati azionari, scatenando recessioni. Inoltre, la presenza di un contesto più rigido diventa un problema per un mondo in cui il debito è cresciuto del 40% dalla crisi finanziaria in poi.

La settimana scorsa è aumentato anche il rendimento dei Treasury trentennali: un evento che avrà un impatto negativo sui consumatori e sui mutui. Non sono buone notizie neppure per il governo degli Stati Uniti, che si trova a gestire un debito pubblico superiore al 100% del PIL.

Per le grandi società, il rialzo dei tassi implica un aumento del costo del capitale, ma costituisce una minaccia ancora più seria per le società di minori dimensioni e più indebitate. Inoltre, la presenza di tassi più alti mette pressione ai multipli prezzo/utili, poiché gli investitori utilizzano tassi di sconto più elevati per valutare le azioni.

Utili più robusti possono consentire di superare l’impatto prodotto dall’aumento dei tassi. Tuttavia, il progressivo rientro degli effetti prodotti dalla politica fiscale e altri stimoli fiscali, nel primo trimestre del 2019, causerà probabilmente un rallentamento degli utili nel corso del prossimo anno rispetto ai ritmi osservati nel 2018.

Sarà anche opportuno osservare attentamente come reagirà il dollaro USA all’aumento dei rendimenti; la prospettiva di un ulteriore rafforzamento del biglietto verde sarebbe deleteria per i mercati non statunitensi, in particolare quelli emergenti.

Elemento catalizzatore

Non sorprende che la settimana scorsa i mercati con più rischio, in particolare quelli emergenti, abbiano reagito male. Non scordiamo che ciò è accaduto a sole due settimane dallo storico intraday di 2.941 punti dell’indice S&P 500 e solo alcuni giorni dopo la stipula del nuovo accordo commerciale tra Stati Uniti, Messico e Canada (che probabilmente non chiameremo più NAFTA).

I mercati azionari non crescono più in linea retta, come ci eravamo abituati dalla metà del 2016. E neppure hanno bisogno di una recessione per operare una correzione: un irrigidimento del contesto può spingere al ribasso le quotazioni azionarie anche quando gli utili sono solidi. Una rottura di quella linea retta è già stato provocata da un aumento dei rendimenti obbligazionari nel corso dell’anno. È probabile che sarà lo stesso catalizzatore a generare il prossimo cambio di direzione. Che potrebbe benissimo essere di dimensioni maggiori. E che avrebbe potuto scatenarsi la settimana scorsa. Ma anche ammettendo che l’attuale volatilità costituisca l’ennesimo falso allarme, siamo dell’avviso che nei mesi a venire sarà sensato sfruttare la crescita nelle asset class più rischiose per adottare un posizionamento maggiormente difensivo.

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