I motori del private equity

“I numeri del 2018 sono molto interessanti: il private equity italiano nel suo complesso, che quindi comprende le operazioni fatte su imprese del nostro Paese sia da operatori internazionali sia italiani, è cresciuto in termini di operazioni, nonostante un contesto di criticità. Nel primo semestre dell’anno, la nostra analisi condotta con PwC Deals rileva dati in crescita in tutte le varie categorie”. Parola di Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi, l’Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt.

Di che dati stiamo parlando?

L’ammontare investito è stato pari a 2,9 miliardi di euro, in crescita del 49% rispetto agli 1,9 miliardi del primo semestre 2017. Escludendo i large e mega deal, vale a dire le operazioni superiori ai 150 milioni, l’ammontare si attesta a 1,4 miliardi (+39%). Il segmento early stage (cioè gli investimenti in imprese nella prima fase di ciclo di vita, seed, startup, later stage) è cresciuto a 96 milioni di euro (+122%) pari a 80 operazioni (+23%). Il buyout è aumentato del 29% in numero (44 operazioni) e del 10% in ammontare, a quota 1,3 miliardi di euro. L’expansion (vale a dire gli investimenti di minoranza finalizzati alla crescita dell’azienda) ha attratto 230 milioni (+67%) con 24 operazioni (20 nel primo semestre 2017).

Come spiegate questi numeri?

La nostra lettura consiste nel fatto che si sta parlando di economia reale, che le acquisizioni riguardano le eccellenze dell’industria italiana che “vanno bene” e che vogliono andare ancora meglio. Al di là delle statistiche macroeconomiche che riguardano l’intero Paese, vediamo aziende italiane che hanno grande capacità a livello di export e che quindi risultano appetibili in un’ottica di private equity. Certo, si tratta pur sempre di una nicchia che comprende poche centinaia di imprese che entrano nel mirino dei private, ma risultano una parte vitale della nostra economia.

E la seconda parte dell’anno?

Il dato del terzo trimestre del Private Equity Monitor conferma una situazione positiva. C’è un’industria italiana che cresce e prospera e il compito del private equity è proprio quello di andare a scovarle e mostrare in cosa può essere d’aiuto per il futuro dell’azienda l’intervento di un investitore istituzionale. Sia come supporto alla crescita organica sia eventualmente tramite ulteriori acquisizioni in Italia e all’estero.

C’è una stagionalità nel settore? Vale a dire: è possibile prospettare un andamento anche dell’ultimo trimestre dell’anno?

La stagionalità non è molto marcata, anche se in genere si rileva un aumento della finalizzazione delle operazioni nel secondo trimestre, dovuto al fatto che spesso si aspetta l’approvazione dei bilanci. C’è anche una forte complementarietà tra ultimo trimestre dell’anno e il primo dell’anno successivo dato che spesso operazioni che non si sono riuscite a chiudere entro dicembre, magari per due diligence protrattesi più a lungo del previsto, vengono concluse a inizio anno. Senza contare che in ogni caso, almeno sui dati a valore, una singola grossa operazione può sballare le statistiche.

E per quanto riguarda la raccolta di capitali?

Nel primo semestre è stata pari a 1,9 miliardi di euro, il 55% in più rispetto al 2017; di questi 1,7 miliardi sono stati raccolti sul mercato (+43% rispetto agli 1,2 miliardi del 2017). Se escludiamo i soggetti istituzionali, la raccolta degli operatori privati è stata di 1,3 miliardi, contro i 453 milioni del primo semestre dello scorso anno. Investitori individuali e family office hanno contribuito per il 17%, i fondi pensione con il 16%, mentre gli investitori internazionali hanno pesato sulla raccolta di mercato totale per il 38 per cento.

Quanto valgono i private italiani ed europei?

In termini di numero di operazioni gli operatori italiani valgono il 70-80% del totale, mentre in termini di volumi, il 60% è ascrivibile ai fondi private internazionali che raccolgono masse di investimenti a livello paneuropei, quindi hanno una potenza di fuoco maggiore e si intestano quindi le operazioni più grandi. Una dinamica che però non è solo italiana ma che si rileva in tutta Europa. Tuttavia questi grandi fondi rappresentano anche una importante exit per i private equity nazionali. In pratica rilevano aziende a uno stadio di sviluppo successivo rispetto a quello degli operatori di “taglia minore” se l’azienda vuole fare un ulteriore salto dimensionale.

Qual è la situazione in termini di exit?

Nel 2017 e anche nel primo semestre 2018 il mercato non è bloccato, ma si è mosso in modo fluido. Si sono trovati numerosi canali di exit. Abbiamo rilevato anche diverse cessioni a corporate buyer nazionali, oltre che ad altri fondi, mentre la Borsa è una via d’uscita poco utilizzata, ancora di più poi negli ultimi mesi. Ma in ogni caso la quotazione non rappresenta mai un canale importante di disinvestimento. Invece se parliamo di venture capital, rileviamo come vi siano ancora molte difficoltà ad avviare le exit, dato che vi sono processi più lunghi per creare entità vendibili.

Quali sono i settori più gettonati e quale evoluzione avete rilevato negli ultimi anni?

Si investe parecchio nel settore tecnologico, sia a livello di private equity sia di venture capital, ad esempio su It e medicale; poi i grandi pilastri dell’industria italiana, beni e servizi manifatturieri, meccanica, distribuzione, l’alimentare che è diventato un comparto importante, i servizi. Non c’è una predominanza del “Made in Italy” a differenza di quel che si può credere, e non ci sono stati grandi cambiamenti negli ultimi anni. I cambiamenti sono nelle richieste dei private, che cercano aziende con una buona tecnologia e competenze digitali, oltre alla propensione internazionale. Una modalità nuova in realtà si sta imponendo.

Quale?

Sia nelle operazioni di buy out sia in quelle di sviluppo stiamo rilevando un lavoro comune tra i fondi di private equity e quelli di private debt. Oggi i fondi di debito sono molto attivi e forniscono capitali a medio lungo termine per aiutare ulteriormente lo sviluppo di aziende che hanno fatto operazioni con private. In parte sostituiscono quello che era il vecchio credito industriale in una fase economica in cui il sistema bancario sembra fare più fatica a erogare capitale.

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