Lo dicono le principali ricerche sul mercato: uno dei problemi difficili della nostra economia e del nostro sistema bancario e finanziario è il dimensionamento imprenditoriale, anche perché viviamo sempre di più in un sistema a rete globalizzato in cui ci sono settori che diventano immensamente grandi e che costituiscono l’hardware del sistema stesso (banche, infrastrutture, sistemi farmaceutici, automobilistici, aeroportuali).
Capitali decisivi
La realtà produttiva italiana invece è esattamente l’opposto: la grande impresa non esiste quasi più, ma è rimasto un tessuto di Pmi intraprendenti che ha in potenza delle caratteristiche adatte per il futuro, ma fatica a svilupparle per tanti motivi, tra cui il principale è una sottocapitalizzazione costante e il ricorso continuo alla leva bancaria. Lo ricordiamo sempre: a parità di dimensioni medie delle Pmi (fatturato, dipendenti, ricavi), gli italiani fanno impresa con il 17% di capitali propri, mentre in Usa si ha una media del 70% e gli altri Paesi europei si collocano intorno al 40%.
Ecco perché difficilmente una piccola impresa riesce a diventare media senza ricorrere a risorse finanziarie esterne, siano queste il credito da parte di una banca, o l’ingresso di nuovi soci nel capitale. Senza poi dimenticare che, secondo i dati di Bankitalia, circa il 70% delle imprese italiane è ancora di prima generazione. Questo significa che l’età media dell’imprenditore/titolare di un’azienda familiare è superiore ai 75 anni. È la classe imprenditoriale che ha costruito l’Italia a partire dalla fine degli anni ’50.
Effetti della pandeconomics
Fattori di contesto importanti, a cui si aggiunge il fatto che gli effetti della pandemia, come ci ricorda CapGemini, si sono dispiegati a livello mondiale con una decrescita complessiva della patrimonializzazione tra il 6 e l’8%. Naturalmente, questo vale anche per il nostro paese, che rimane comunque ai vertici della ricchezza globale. Ma la “pandeconomics”, come abbiamo capito tutti, non si dispiega in maniera uniforme ma accentua le asimmetrie tra settori, territori, famiglie, generazioni. Così come è avvenuto sul piano sanitario, anche in economia e finanza, sono sati colpiti e spesso abbattuti i soggetti più fragili e meno resilienti.
E questo, in Italia, ha riguardato e sta riguardando anche il sistema bancario che soffre sia le derive di cambiamento esogene della pandemia, sia quelle endogene derivanti dal riassetto in corso tra grandi player e dalle sofferenze economiche e creditizie delle banche più piccole, alle prese con Mifid 2 e con l’espansione di challenger banks e fintech.
Il breve termine non paga
Come uscirne in ottica prospettica? Non è semplice perché l’incrocio tra crisi delle imprese ed evoluzione del sistema bancario sembra un vicolo cieco per la sempre minore vocazione delle banche ad assumersi rischi di credito non adeguatamente garantiti. In un recente passato, la carenza di capitale di rischio era più che compensata da una abbondante disponibilità di credito bancario a prezzi competitivi grazie all’elevato tasso di risparmio degli italiani. Purtroppo la situazione è cambiata radicalmente. Il sistema bancario italiano si trova oggi in una situazione, patrimoniale e reddituale, che si riverbera sulla disponibilità a finanziare le imprese anche solo rinnovando linee di credito esistenti. O che determina un forte incremento del costo per le imprese stesse.
Investimenti alternativi
Bisogna trovare allora strade diverse. Ad esempio, la strada del private equity che, raccogliendo risorse dagli investitori professionali e istituzionali (nazionali e internazionali), potrebbero essere un efficace strumento al fine di attrarre investimenti a beneficio del nostro sistema imprenditoriale. Non dobbiamo infatti dimenticare che, a livello globale, la ricerca di rendimenti nell’era dei tassi zero sta portando grandi quantità di capitali verso una diversificazione che abbia come focus anche i cosiddetti “illiquidi”, ovvero investimenti al di fuori dei tradizionali mercati finanziari.
Per questo il private equity si sta affermando sempre più come orizzonte in cui, pur non rinunciando al monitoraggio del rischio generato da duration e illiquidabilità, i detentori di patrimoni rilevanti, le banche e le imprese target possono ritrovare un circolo virtuoso di collaborazione, ognuno con il suo ritorno da questa scelta: i ricchi nel trovare rendimenti più sfidanti, rispetto a quelli attualmente presenti sui mercati finanziari; le banche nel rinvenire in questa tipologia di consulenza e di prodotti una parte della redditività perduta in termini di margine finanziario; e le imprese target nell’avere flussi di capitale che siano equity e non debito e che le stimolino a crescita ed efficienza.
Allineare gli interessi
D’altra parte, come affermano molti studi, un euro investito in private equity ne genera quasi tre di Pil addizionale, addirittura otto se si tratta di venture capital. E, per di più, in Italia i tassi di rendimento per gli investitori sono fra i più alti nel mondo con rischi esistenti, ma relativamente contenuti. Ecco perché sviluppare private equity e venture capital, allineando le scelte di investimento dei nostri investitori istituzionali (fondazioni, assicurazioni, casse previdenziali, fondi pensione) alle “best practices” europee, vorrebbe dire fare del bene al Paese e al sistema bancario. E, come dimostrano le prime esperienze che si stanno sviluppando, il nostro private banking potrebbe essere in prima linea in questa evoluzione dalla leva bancaria alla leva finanziaria.