L’asset class del futuro

Theo Delia-Russell è uno dei maggiori esperti di private banking e in Italia.

Professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano, si è specializzato in wealth management alla Wharton School della University of Pennsylvania. Alla docenza affianca la carica di managing directo e deputy head di Mediobanca Private Banking. Autore di diversi libri, ha poco dato alle stampe “Private markets: l’asset class del futuro” (editore Aipb, 244 pagine), affidando la prefazione a Michelle Seitz, presidente e amministratore delegato di Russell Investments.

A seguire l’introduzione di Delia Russell.

La genesi

Questo volume nasce idealmente nell’agosto del 2005, ma prende corpo solamente 15 anni dopo: ci è voluto il più grosso quantitative easing di sempre, tassi negativi e un contesto finanziario “giapponesizzato” per veder concretizzarsi ciò che avevo appreso negli Stati Uniti d’America durante il mio periodo di studio alla Wharton School della University of Pennsylvania, a Philadelphia. Nel 2005, in Italia, il Private Banking era agli albori: si studiava l’evoluzione dell’asset management, le nuove strategie di investimento – direzionali e non direzionali –, si iniziavano a diffondere gli hedge funds ma tutto faceva riferimento a mercati liquidi, pubblici e all’ottimizzazione delle loro dinamiche.

A Wharton spiegavano l’importanza della politica di investimento

di lungo periodo (dopo aver assistito alla volatilità della bolla internet)

per ottenere i rendimenti prefissati. Pensai: “Questo è ciò che

porterò in Italia!”.

Differenze tra Europa e Usa

Negli Stati Uniti, in realtà, l’allocazione di portafoglio era opposta rispetto a quella italiana. Il 60% era azionariato globale, mentre la parte composta da titoli di Stato e corporate cubava al massimo il 30% ed era prevalentemente difensiva e di elevata qualità. Solo una piccola parte era dedicata a strategie alternative e alle materie prime. Un’esigua percentuale, intorno al 2%, aveva l’indicazione “private equity”. Al tempo non feci caso al termine “private equity” e non diedi molta importanza a quella indicazione. Sapevo di cosa si trattasse ma non avrei mai potuto implementarlo in Italia in una banca commerciale.

Tutto il resto sì e sarebbe stata la base della mia formazione professionalee accademica futura. Forse fu un errore. Tutti i miei colleghi di Wharton ne parlavano e avrebbero fatto carte false per lavorare in un fondo di private equity

o di venture capital. Tornai in Italia e per anni il private equity non fu al centro del mio interesse né accademico, né professionale. D’altra parte, i tassi di interesse erano elevati nella remunerazione dei conti correnti delle obbligazioni private e governative. Le banche collocavano obbligazioni per fare funding e quella rappresentava una parte significativa degli investimenti dei clienti del private banking.

Il ruolo dei fondi comuni

La tradizione – prevalentemente italiana – di sovraesporre la propria allocazione a titoli governativi (e real estate) come retaggio di decenni di inflazione cancellava ogni “laboratorio di sviluppo” di asset class alternative, soprattutto se illiquide. I fondi comuni di investimento divennero un perfetto strumento di diversificazione. Non c’era spazio, soprattutto nelle grandi banche private italiane o nelle grandi divisioni di private banking, per dedicarsi a investimenti privati e non quotati, anche per mancanza di una normativa specifica per il segmento retail. Questo ambito rimase appannaggio dei grandi operatori istituzionali.

L’avvento del qe

La situazione rimase così fino all’inizio del quantitative easing: era un periodo di euforia irrazionale dove i mercati avrebbero beneficiato per anni di una stabilizzazione “artificiale” che avrebbe falsato le vecchie dinamiche dei mercati pubblici. Un mondo finanziario protetto da anni di rendimenti positivi per ogni asset class.

Perché allora cercare fonti di rendimento alternative se i mercati restituivano performance senza eccessiva volatilità? I tassi di lungo periodo della componente obbligazionaria erano ancora interessanti ed era certamente più semplice allocare una grossa componente di portafoglio in obbligazioni o fondi obbligazionari. In realtà questo paradiso artificiale portava con sé un progressivo abbassamento delle curve dei tassi, come la siccità in un deserto, creando un nuovo problema a livello mondiale, con ben poche differenze tra i vari Paesi: la definirei “giapponesizzazione” del mondo finanziario.

Addio al rendimento fisso

Dopo anni di politica monetaria espansiva, il rendimento fissoera sparito. Il problema era evidente e non poteva che peggiorare. L’assenza di rendimento “facile” ridiede così impulso, quasi cinque anni fa, a progetti di esplorazione e analisi di nuove soluzioni di rendimento. Fu così che ripensai alle aule di Wharton, ai convegni di New York: risentii i miei ex colleghi statunitensi e compresi che il loro modello ancora una volta andava seguito, e nella sua accezione più autentica.

Il mercato statunitense (e la cultura di investimento) confermava ancora una volta di avere 10 o 15 anni di vantaggio operativo rispetto all’Europa. Nel frattempo, il 2% di private equity nei portafogli modello di Wharton del 2005 era diventato il 20% o il 30%. Il private equity – e i private markets in generale – si erano diffusi nella cultura finanziaria americana grazie alla fortuna di strategie di investimento fondate sulla detenzione e accumulo di quote azionarie importanti, imparando a gestirne l’emotività e sempre con una logica di lungo periodo.

 

Il nuovo mondo

Quel mondo è ora davanti a noi. Tassi negativi, mercati volatili, assenza strutturale di rendimento nei modelli classici ci hanno fatto riflettere sull’importanza di imparare a conoscere i mercati privati, le loro caratteristiche e le loro peculiarità.

Gli strumenti tradizionali di investimento non sono più ora l’unica risposta ai nostri bisogni di rendimento. È necessario reimpostare i nostri patrimoni non solo per tipologia di investimento ma per durata dell’investimento, per liquidabilità e per profilo di rischio. Credo che l’esperienza americana sia ancora una volta quella più profonda e strutturata e ritengo che vada seguita senza compromessi o modifiche. È il nostro approccio all’investimento che deve essere modificato. Non il contrario.

In questo volume portiamo l’esperienza pionieristica della maggiore banca d’investimento italiana e di uno dei più sofisticati e accreditati advisor globali, basato negli Stati Uniti, per raccontare l’esperienza di chi, per primo, ha reso questo approccio possibile in Italia.

 

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